Le imposizioni dei produttori e le pesanti limitazioni imposte ai Japan dalla Hansa nella prima fase della loro carriera hanno compromesso l’ immagine e il suono della band dei fratelli Batt impiastricciando il loro sound fino a renderlo una invendibile e scadente paccottiglia di glam-rock e synth pop. L’accesso verso il nuovo passa inevitabilmente dal ripudio per quanto confezionato nei due dischi precedenti, raffazzonati e indigeribili tentativi di imbastire un suono moderno e bastardo da parte di cinque ragazzini alla totale mercè di incapaci mestieranti abituati a lavorare con eroi della disco music e su banalità da dancefloor. Quiet life è dunque il punto nodale della vicenda artistica dei Japan, il momento di non ritorno verso un estetismo sempre più rigoroso ed eccentrico. L’energia profusa al gruppo dall’incontro con Giorgio Moroder trova una sua compiutezza con la scelta di ricorrere a John Punter per la produzione di un intero album che definisca i canoni estetici che Sylvian e compagni inseguono sin dalle origini. Da questo istante i Japan diventano un’altra band, conscia delle proprie potenzialità e con una identità definita e, soprattutto, originalissima. Se gli scimmiottamenti glam dei primi anni erano stati sfruttati a vuoto dalla Hansa per fare del gruppo londinese la nuova attrazione per i teenager inglesi e avevano gettato nello sconforto i promoters inglesi che non riuscivano davvero a capire dove piazzarli (clamoroso il concerto di spalla ai Blue Öyster Cult all’ Hammersmith londinese dove i nostri vengono cacciati a piatti in faccia dopo sei minuti di esibizione, NdLYS), le nuove linee esotiche elegantemente incuneate tra gli estetismi androgini di Bowie e Roxy Music e i decadenti accenni alla musica colta di Satie (si ascolti qui il tono grave e doloroso di Despair, non a caso cantata in francese, NdLYS) e Brian Eno (gli echi di Sky Saw che si percepiscono tra le linee di In Vague e della European Son registrata per l’ album e poi finita su singolo) tracciano il profilo di una band dal suono unico, penzolante tra decadenti climi mitteleuropee, originali ricami orientali ed eleganti quanto esotiche sincopi dance e di cui la formazione si mostra a ragione fiera fino ad obbligare i manager della casa discografica a sciogliere il contratto lasciandoli di fatto liberi di sfruttare il nuovo potere contrattuale che l’ interesse attorno al nuovo disco garantisce loro. Dopo un lungo periodo buio in cui il gruppo è (perdonatemi l’ ovvietà ma è proprio il caso di giocarsela, NdLYS) esclusivamente “big in Japan”, probabilmente in virtù dell’ orgoglio nipponico stimolato dal moniker adottato che campeggia sulle copertine dei loro dischi, all’ alba degli anni Ottanta i Japan diventano all’ improvviso una straordinaria band di culto e anche di successo, gettando le basi per il movimento new-romantic e ispirando decine di band che veicoleranno il loro messaggio alle zone altissime delle charts, Duran Duran in testa. Il look frivolo e le pose da rockstar sono sacrificati in favore di un’ eleganza più austera e un po’ dandy e soprattutto caratterizzando ed esaltando con decisione le peculiarità tecniche di ogni componente. David Sylvian si separa dalla sua sei corde per concentrarsi sulla modulazione vocale sempre più suadente e persuasiva, Mick Karn elabora uno stile di basso personalissimo scorrendo morbido sulla sua sua tastiera con una tecnica simile a quella dei suonatori di guqin cinesi (qui sfruttata al meglio dentro le strutture di Alien), Rob Dean alterna decise pennate dal taglio funky a misurati interventi solistici di gran gusto senza invadenza, nel rispetto degli equilibri armonici creati dalle tastiere di Barbieri, sempre più presenti e suggestive, Steve Batt dietro i tamburi si dedica a idee percussive sempre più elaborate. La musica dei Japan da questo momento in avanti si trasforma da spigolosa in tondeggiante, assecondando la predilezione e il gusto orientale per le forme curve e preparandosi all’ affascinante fusione tra la moderna cultura occidentale e la millenaria tradizione orientale che troverà forma compiuta nei due dischi successivi. (Franco Dimauro)
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