Terzo capitolo, dopo l’anarcoide Pink Flag (1977) e il dadaista Chairs Missing (1978), di una delle avventure più belle del rock. Quello che appare straordinario in un disco come 154 è il deciso salto di un intero decennio dentro la modernità, che ha l’effetto di richiamare e rimodellare il percorso psichedelico dei Pink Floyd, l’art rock dei Soft Machine, Can e Neu!, filtrandolo attraverso i passaggi obbligati del punk e di quella che fu definita new wave, allora in piena esplosione. A distanza di oltre un quarto di secolo dalla sua pubblicazione 154 è tuttora uno sfaccettato monolite emanante segnali obliqui e cunei emotivi penetranti. Non soffre del tempo che passa perché il percorso futuribile è abbondantemente anticipato attraverso architetture svettanti e smaglianti rovine, quasi come un K. Dick musicale premonitore. Questo disco richiede un’attenzione spasmodica e maniacale per la cura dei dettagli (Mike Thorne, non un produttore ma, di fatto, la quinta mente) che sembrano più importanti di un già straordinario assieme, pur non facendo mai partita a sé. Collettivo di lavoro d’importanza seminale – cibo per mente ed anima e punto di partenza per decine di artisti che ne riconosceranno la grandezza (R.E.M., tanto per nominare qualcuno)-, i Wire sono uno dei rari esempi di attualità costante nel tempo e di confortante non-attitude al rincoglionimento intellettuale che il rock, talvolta, ha saputo regalare. Aspetteranno oltre 6 anni per tornare. Il tempo li ritroverà perfettamente a loro agio nell’oscuro divenire così lucidamente evocato. (Massimo Bernardi)
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