Avevo 15 anni nel 1991. Ignoravo l’esistenza di Bobby Gillespie e non ero ancora dedito alle droghe. Bobby si. Lui aveva già messo la firma su un disco che oggi fa bella mostra nella mia piccola collezione di dischi, ma quando sei piccolo e non vivi pienamente il presente, preferisci stordirti di rock piuttosto che cercare la melodia nascosta nel rumore. Solo la consapevolezza, l’età adulta e qualche apertura mentale “indotta” mi ha rilevato l’importanza dei Jesus and Mary Chain, gruppo nel quale Bobby si dilettava dietro le pelli. Ma Screamadelica è un’altra storia. Quindici anni dicevo, un momento critico, di passaggio. Le indecisioni erano quelle classiche, l’amore non corrisposto, il corpo che cambia e le pulsazioni sessuali che si fanno più insistenti. Intorno il frastuono dello scorrere del tempo, la morte e la risurrezione del rock che negli anni mi ha salvato la vita (non è un eufemismo, lo credo veramente) e un disco spartiacque che ha aperto (in ritardo) la mia testolina di cazzo. Nel 1991 Bobby era un trentenne con un passato a sua insaputa glorioso e un futuro incerto come l’attuale presente. I primi dischi dei Primal Scream mettevano in luce l’amore per un rock d’annata zeppo di Rolling Stones, Stooges, New York Dolls e tradizione a stelle e strisce ma non avrebbero potuto durare in eterno, perché il diavolo l’eterna giovinezza l’ha regalata a Keith Richard e a pochi altri disgraziati. Gillespie l’immortalità se la guadagnò aprendo gli occhi dopo aver ingerito pastiglie colorate e decifrando i segnali di un mondo in evoluzione, carpendone i segreti per modificare il dna di un gruppo pronto a cavalcare il presente. La vita è bizzarra nel presentarti persone che ti cambieranno la vita. Io incontrai il Testone, il Cipolla, il Panettone e due Squali meravigliosi (giuro, non mi drogavo ancora, sono solo i soprannomi di amici carissimi) mentre Bobby conobbe Andrew Weatherall, dj intrippato di house e di rave che portò i Primal Scream ad infettarsi con una cultura a loro poco familiare. Non faccio però fatica a credere quanto sia stato facile per Bobby e compagni immergersi in una Londra anfetaminica, drogata e accecante, regalandole un po’ di flusso spermatico che odorava ancora di rock’n’roll, ricevendo in cambio un orgia multicolore pronta a detonare in tutto il mondo. Si celebra oggi, a venti anni di distanza, questo immenso disco, punto di non ritorno nella carriera dei Primal Scream e manifesto alto di contaminazione fra generi; sono passati due lustri e quello che rende immortale questo capolavoro non è solo la spaventosa resa sonora che rasenta la premonizione di un immaginifico futuro, ma la capacità di fissare su una polaroid bagnata nell’acido un momento storico, veloce quanto un battito di ciglia che non si è però mai dischiuso realmente. “The country was dancing for hours and nights and days on end. In daylight. In fields. And someone had to make the music. In fact it felt like anyone could”; sono queste le parole che nella nuova edizione illuminano l’ascoltatore pronto a rigettarsi in questo lavoro invecchiato davvero egregiamente. Nonostante le droghe, l’inesorabile scorrere del tempo e le mode che surclassano anche le migliori intenzioni. Screamadelica però non avrebbe potuto essere dimenticato; troppo “puttana” nello strizzare l’occhio ai neofiti della cultura rave e ai vecchi barboni con gli Stones nel cuore e il rock sudista nella tasca, troppo “zoccola” nell’ammiccare ai “negri” che ostentano black power e “bianchi” cadaverici che si sfondano di Velvet Underground. Troppo anche per me, che a quindici anni non seguivo ancora una direzione ma ero certo di imbattermi in qualche “perla” che rappresentasse il mio tempo; d’altronde l’invidia di non aver vissuto i settanta avrebbe avuto prima o poi la sua rivincita. La gente voleva ballare, sballare e godere e queste tre opzioni Screamadelica le regala tutte amplificandole all’ennesima potenza; “prendete l’orgasmo più forte che avete mai provato” diceva Mark Renton in Trainspotting riferendosi all’eroina, “moltiplicatelo per mille…neanche allora ci sarete vicini…”. L’eroina in questo caso è musica totale, danza della mente che si fonde con il fumo dei club, sole cocente che scalda vecchi hippy e luci fluorescenti che attraversano corpi di ectoplasmi danzerecci; il grido gospel di Movin’on up è un apripista solare ma la rilettura ossessiva di Slip Inside This House (un classico di Roky Erickson e dei suoi 13th Floor Elevators), l’intermittenza tra funky e dance club di Don’t fight it, feel it, i dieci minuti in crescendo d’organo e proclami d’amore verso il paradiso strafatti d’erba in Come Together, la versione carillon drogato e la sorellina in dub apocalittico di Higher than the sun, la liquida cantilena da sguardo assente Inner Flight, il jazz sciolto nel bicchiere di un miscuglio indefinibile nella lasciva I’m coming down e la splendida ballata che sancisce la fine di una festa devastante con Damaged sono le coordinate per comprendere l’importanza di questa opera immortale (la deluxe edition include anche il Dixie Narco EP che riprende Movin’on up e le inedite su disco originale Stone My Soul, Carry Me Home e Screamadelica). Ora non resta che attenderli al varco, trepidanti nell’osservare da vicino la loro creatura più riuscita. Nel frattempo i miei amici sono rimasti tali, le droghe non hanno avuto la meglio (ne su di me, ne su Bobby) ma Screamadelica continua imperterrito a spalancare menti. Incurante di tutto, anche dei vostri quindici anni. (Nicola Guerra)
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