Dopo l’efficace, quanto commercialmente poco fortunato, debutto alla regia con “I Basilischi” (1963) – satira amara del vitellonismo giovanile meridionale – Lina Wertmüller, già aiuto di Federico Fellini, s’era dedicata al teatro collaborando con Giorgio De Lullo, alla realizzazione di brillanti spettacoli televisivi (in un periodo in cui la TV veniva snobbata dagli autori con aspirazioni artistiche) e, persino, di filmetti incentrati sulla figura di Rita Pavone, narrativamente fragili ma per nulla sconvenienti, acquistando una grande esperienza in ogni settore dello spettacolo “leggero” le cui situazioni e gags dimostrerà di padroneggiare con grandissima disinvoltura nelle produzioni cinematografiche successive. Quasi dieci anni più tardi l’esordio, l’autrice romana sembra ritrovare la vis dissacratoria che costituiva l’essenza de “I Basilischi” narrando la triste parabola di un operaio che, per mere necessità materiali, è costretto a servire il potere e la mafia uniti in una spregevole alleanza occulta. Licenziato dalla fabbrica in cui lavorava perchè comunista, l’operaio Mimì deve abbandonare la Sicilia e lasciare la giovane moglie Rosalia per emigrare a Torino. Nella città piemontese l’Associazione Fratelli siciliani, paravento dietro il quale agisce la mafia, gli trova lavoro in una grande industria dove incontra Fiore, un’operaia anch’essa comunista, che mette incinta. Ritornato con Fiore ed il bambino a Catania, Mimì tenta con scarsi risultati di portare avanti due ménages familiari ma la moglie Rosalia gli confessa di aspettare un bambino da un brigadiere della Guardia di Finanza nei confronti del quale si vendica facendo prima l’amore in una fatiscente baracca con la grassa moglie di lui e, poi, riferendogli che quello atteso da Amalia sarà figlio suo. La mafia uccide il brigadiere e Mimì viene accusato di essere l’autore del delitto ma in carcere rimane ben poco grazie ai “buoni uffici” dell’onorata società che lo aiuta ancora una volta. Fuori trova ad aspettarlo la moglie, la compagna e Amalia, rimasta vedova, ciascuna delle quali ha un figlio che Mimì dovrà mantenere diventando, in mancanza di alternative, il sostenitore elettorale di un mafioso canditato nelle liste della Democrazia Cristiana. Se il precedente “I Basilischi”, in sintonia con il tema trattato – una denucia amarognola dell’inanità di una parte della gioventù meridionale – appariva statico, girato con lenti movimenti di macchina e dolci carrellate, “Mimì metallurgico ferito nell’onore”, invece, è caratterizzato da una scoppiettante frenesia narrativa ben sostenuta dalla dinamicità del montaggio di Franco Fraticelli. Il film, infatti, contrariamente all’andamento tradizionale della commedia all’italiana che prendeva di mira un solo bersaglio alla volta, affronta una pluralità di temi alterando in chiave grottesca i registri della comicità italiana tradizionale. In questo senso, dunque, “Mimì metallurgico ferito nell’onore” rappresenta una cesura dei canoni tranquillizzanti a cui era stato abituato il (grande) pubblico del nostro paese. La sceneggiatura (opera della stessa Wertmüller) dispiega, infatti, un intreccio complesso che analizza in maniera esasperata e straniante il degrado sociale ed economico del mezzogiorno italiano, i traumi dell’emigrazione interna, le condizioni di lavoro nelle fabbriche e i conflitti sindacali, le contrapposizioni ideologico-politiche, il proto-femminismo, l’emancipazione dei costumi, la monotonia dei rapporti coniugali, l’evoluzione del nucleo familiare e, soprattutto, la pervasività della mafia nelle istituzioni pubbliche con uno stile violento e concitato che, ormai, non ha più nulla in comune con il linguaggio allusivo delle commedie classiche. L’autrice volutamente preferisce lo sberleffo urlato alla linearità estetica sottolinenando visivamente gli episodi più importanti (l’inquadratura grandangolare accentua la sgradevolezza dell’amplesso fra Mimì e la corpulenta Amalia) e ricorre, persino, al turpiloquio più spregiudicato ascoltato fino allora dal pubblico tradizionale della commedia perchè mossa dalla necessità urgente di descrivere con efficacia iper-realista il progressivo involgarimento d’una società confusa e sbandata dalle continue trasformazioni a cui è sottoposta. Esemplare, a tal proposito, appare la figura camaleontica del protagonista (uno straordinario Giancarlo Giannini) misura dell’opportunismo e del qualunquismo sempre più tratto distintivo dell’italiano medio a dispetto di principii velleitari sbandierati per moda ma niente affatto praticati. Grottesco j’accuse, dunque, dei mali (eterni) dell’Italia, sguardo perplesso sui cambiamenti sociali e, soprattutto, tentativo di rinnovare i codici di un “genere” – che all’inizio degli anni ‘70 sta mostrando la corda – con un uso disinvolto del linguaggio auricolare e visivo: un esperimento riuscito e godibile. (Nicola Pice)
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