Per Andrej Tarkovskij gli anni ‘70 coincidono con un periodo di crisi personale e professionale. “L’infanzia di Ivan” (1962) e, soprattutto, il sublime “Andrej Rublev” (rimasto invisibile agli occhi del popolo russo per quasi cinque anni fino al 1971) hanno ricevuto riconoscimenti nei più importanti festival cinematografici occidentali rendendolo un cineasta di fama internazionale ma, in maniera proporzionalmente contraria, l’ostilità del regime sovietico nei confronti del regista è diventata sempre più soffocante. Sideralmente lontano dai canoni del realismo socialista, punto fermo nella definizione dello stile del suo autore e nella sua riflessione sul ruolo dell’uomo e dell’arte, è stato proprio il film sulla vita del pittore di icone Rublev, vissuto in una Russia devastata dalle scorribande dei Tartari, ad avergli nuociuto: lentamente ieratico, intriso di simbolismi, frammentato nell’azione da una continua dilatazione spazio-temporale, impregnato d’un misticismo piegato al dolore dei dubbi d’una fede incapace di spiegare le contraddizioni umane, risultava palesemente in contrasto con le certezze dell’ortodossia comunista e con la visione dialettica della storia. Nel diario che il regista russo inizia a scrivere all’alba degli anni ‘70 e, soprattutto, nel saggio autobiografico “Scolpire il tempo”, Tarkovskij rende esplicito il sofferto disagio causato dagli ostacoli che la burocrazia del partito gli frappone per la realizzazione dei suoi progetti. Amareggiato e preoccupato, dunque, per le sorti sempre più nebulose del suo lavoro, Tarkovskij si dedica alla realizzazione nel 1972 della rielaborazione cinematografica di un romanzo – “Solaris” – dello scrittore di fantascienza polacco Stanislaw Lem. L’approccio dell’autore sovietico all’opera è ovviamente del tutto personale dal momento che a Tarkovskij poco importa di un mondo – quello della science fiction – autoreferenzialmente esclusivo e drammaturgicamente fin troppo sfruttato dal cinema (soprattutto occidentale). Infatti, banalmente pubblicizzato sul mercato estero come la risposta sovietica a “2001: Odissea nello spazio”, “Solaris” rappresenta, piuttosto, una testimonianza angosciosa dello smarrimento umano dinnanzi all’ignoto, una complessa e metaforica riflessione che trascende le caratteristiche del “genere” di cui formalmente si ammanta per dettare, al contrario, le linee di un cinema che potremmo definire di “fantacoscienza” in cui alla visionarietà delle immagini (e della storia) si uniscano, pertanto, le speculazioni filosofiche proprie del pensiero umano. Lo psicologo Kris Kelvin, dopo aver trascorso una giornata nella casa di campagna con il padre, parte sulla piattaforma orbitante intorno al pianeta Solaris per indagare sugli strani fenomeni che vi accadono attribuibili presumibilmente all’influsso del magmatico oceano che si trova sul pianeta. La situazione che deve fronteggiare è terribile perchè Solaris, bombardato con i raggi X, ha inviato a sua volta sulla piattaforma radiazioni che hanno attivato la capacità di materializzare tutti i ricordi, le paure e le ossessioni dei componenti dell’equipaggio. Il capo della missione, Gibarjan, s’è ucciso e gli altri due, Snaut e Sartorius, sono vittime di incubi che mettono alla prova il loro equilibrio mentale (sono circondati nel sonno da gnomi mostruosi). Anche Kelvin rimane vittima dell’influsso malefico dell’oceano di Solaris dovendo fronteggiare con frequenza sempre maggiore l’immagine della sua compagna Chari suicidatasi anni prima dopo essere stata da lui abbandonata. Alla fine Sartorius decide di inviare all’oceano l’encefalogramma di Kelvin contenente un fascio cosciente di pensieri. Il messaggio viene recepito dal magma che, mentre sulla sua superficie si formano strane isole, smette di torturare gli umani. Al risveglio, infatti, Kelvin si accorge della scomparsa di Chari e vede, come all’inizio del film, la casa di campagna e il padre. Tarkovskij respinge la spettacolarità del genere fantascientifico confezionando, piuttosto, una “favola” di monologante ed esasperata interiorità che viene racchiusa tra un prologo ed un epilogo speculare nell’ambientazione (la casa paterna di Kelvin) che rimandano entrambi alla grande narrazione ottocentesca di stampo classico che stride con l’avvenieristico sviluppo dell’intera opera ma che è necessaria per sottolineare la complementarietà del passato con il presente e con il futuro (sebbene contrapposti dialetticamente nel corso del film). Infatti, gran parte delle soluzioni proposte dall’autore, visive (la citazione del quadro di Bruegel,” I cacciatori della neve”, la caraffa e le tazze della casa paterna riprese come fossero nature morte) e sonore (il rumore della pioggia e il tema musicale del “Preludio” di J.S.Bach che accompagnano l’intera sequenza iniziale) fanno riferimento a quel “cuore antico” che batte nel futuro riaffermando l’idea, vera e propria ossessione del cinema di Tarkovskij, che le singole vicende umane – così come la storia stessa – siano organicisticamente strutturate ed interconnesse nel corso del tempo. Volutamente barocco perchè ricolmo di simboli talvolta incomprensibili, tinteggiato con uno spiritualismo sommesso quanto evidente, “Solaris” è la testimonianza dello sgomento dell’essere umano disperatamente proteso al raggiungimento di una verità “ultima” impossibile da afferrare. La scienza poco – o niente affatto – aiuta gli uomini, sembra dirci l’autore, anzi: proporzionalmente alle sue scoperte aumenta il desiderio di comprendere il senso più profondo della realtà, ben oltre la sua consistenza sub-atomica. In fondo, “Solaris” è la rappresentazione non solo della sconfitta della possibilità per l’uomo della conoscenza “assoluta” (presupposto laico dello sviluppo scientifico ed idea fondante del cinema di fantascienza come esplorazione e dis-velamento dell’ignoto) ma anche dell’intrinseca caducità della stessa vita umana, illusoria ed ingannevole come ben evidenziato nello straniante finale che con un ampio movimento della MDP ci fa scoprire che la casa di campagna del padre di Kelvin non si trova sulla Terra (come verrebbe spontaneo pensare dopo la fine degli incubi del protagonista) ma su una delle isole emerse del pianeta Solaris. (Nicola Pice)
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