Roma, 19 luglio 2011 – Per tutti coloro che amano un certo tipo di musica e sono cresciuti con la sensazione di aver lasciato qualcosa di irripetibile lungo il cammino, ci sono occasioni che non si possono perdere. Robert Plant, il leggendario front-man dei Led Zeppelin, di nuovo on stage sul palco del Rock in Roma. A seguire, una performance live di Ben Harper. Assolutamente imperdibile. C’è un’attesa spasmodica per il concerto, sin dal tardo pomeriggio la gente si affretta a prendere posto sulle gradinate e sul prato, si respira forte l’atmosfera dell’evento. Quello che subito balza agli occhi è l’eterogeneità del pubblico presente. Gruppi di nostalgici signori sulla sessantina si alternano a ragazzi che hanno superato da poco i vent’anni. Quasi in sordina, dopo una breve apparizione dei Bastards sons of Dioniso (creature di X-Factor), arriva Lui. Pantaloni in pelle nera d’ordinanza e lunghi capelli biondi, oggi come allora. Robert Plant, classe ‘48, la storia della musica rock è lì, davanti a te. Accompagnato dalla sua Band of Joy, Plant emana un’aura quasi divina. Sai che non potranno mai ripetersi i fasti degli Zeppelin, sai che Bonzo non picchierà mai più sulle note di Whole lotta love ma quello che si presenta ai tuoi occhi è pura emozione. Si parte con “Black Dog” e il pubblico capisce subito che non sarà una serata qualunque. L’aspetto forse più incredibile e ammirevole di Plant è la sua capacità di non rincorrere i fantasmi del passato, cercando di emulare un’immagine di sé che mai e poi mai potrà essere riportata indietro. La sua strada musicale di oggi non coincide con quella del passato, si macchia di tanto blues, folk e country, sottolinenando la tranquilla evoluzione di un artista che ha superato brillantemente i sessanta. Poco più di un’ora per rinnovare un’energia musicale e vitale senza tempo, una manciata di pezzi fatti apposta per cercare nel cuore la voglia di vivere e rivivere un’epoca incredibile che ha lasciato i suoi visibili segni anche su chi non c’era. Al termine dell’esibizione di Plant, però, un altro evento conquista la scena: un acquazzone torrenziale, iniziato al momento del cambio palco e proseguito per buona parte del concerto. Una quarantina di minuti trascorsi tra la folla infreddolita e bagnata, cercando di ripararsi alla meglio ma tenendo rigorosamente l’ombrello in borsa (chi rock’n’roll vuole apparire…).Naturalmente l’agitazione e l’impazienza per l’arrivo di Harper crescono con l’aumentare della pioggia e più la pioggia aumenta più il lavoro dei tecnici on stage diventa arduo. Dopo una serie di improperi, qualche fischio e raffreddori in embrione, Ben Harper riesce finalmente a conquistare il palco. Jeans e t-shirt bianca, quasi a voler sottolineare che la musica, quella vera e di qualità, non necessita di orpelli né di effetti speciali. Ad accoglierlo, una sincera e affettuosa ovazione, capace di far dimenticare in un istante la pioggia, il freddo, la calca, la birra sui vestiti e le gomitate (…). La scaletta è ricca e trasversale: si parte con “Numbers with no name”, del periodo Relentless, si continua con diverse tracce del nuovo album, da “Rock’n’roll is free” a “Don’t give upon me now”. A un tratto, tuttavia, l’acquazzone si fa’ torrenziale: piove anche sul palco, bisogna interrompere ancora, per consentire di arretrarlo e proteggere gli strumenti. Tra i presenti comincia a serpeggiare un po’ di malumore, si impreca contro la pioggia, ci si chiede quando sarà possibile recuperare l’evento, che sembra ormai irrimediabilmente compromesso. Invece, improvvisamente le cose cambiano. Nel vocio sommesso ma rumoroso si sente la voce di Ben che, in italiano, urla al pubblico “Se voi restate, io resto.” Quello che è successo dopo potete facilmente immaginarlo. Un susseguirsi di emozioni sulle note di “Diamonds on the inside”, “Burn one down”, “Pleasure and pain”, rese ancor più preziose da due splendidi inediti, “Masterpiece” e “Vein in vain”, nonché da un omaggio all’amico Vedder, con un’esplosiva rivisitazione di “Jeremy”. Ben Harper dialoga con i suoi affezionati fans, racconta le sue sensazioni e le rende tangibili. La band lo segue senza sbavature, in perfetta sintonia con la sua innata capacità di improvvisazione. Si chiude con la corale “Better way”, che tutti intonano all’unisono e che trascina verso la conclusione una serata che a tratti è parsa infinita, nel bene e nel male. La speranza di quasi tutti i presenti era naturalmente racchiusa in una sola parola: duetto. Un desiderio rimasto irrealizzato che lascia un po’ d’amaro in bocca ma che di certo non riesce a surclassare la gioia che ha invaso anima e cuore dei presenti, marchiando a fuoco emozioni che difficilmente si potranno dimenticare. (Laura Carrozza)
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