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Recensione: The War On Drugs – Slave Ambient (2011)

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L’ultima fatica dei War on Drugs è qualcosa di estremamente emozionante, soprattutto per chi, nonostante sia cresciuto a suon di Springsteen, Dylan e Petty, non ha mai perso il piacere della scoperta. Ecco quindi che Slave Ambient si rivela il disco giusto nel momento giusto. Il classico album che ti fa fare un salto indietro nella memoria ma anche un salto avanti nel futuro. Adam Granduciel e soci questa volta ci riescono alla grande, mettendo su un lavoro che unisce abilmente il rock mainstream, quello fatto di belle melodie e sentimenti, con quello underground e alternativo di cui ormai non possiamo più fare a meno. Dodici belle canzoni che travolgono, commuovono e riempiono il cuore di suggestioni e di turbamenti e che ci lasciano con il fiato sospeso. Da Best Nights alla conclusiva Blackwater quelli realizzati dai War on Drugs sono brani di una bellezza cristallina che uniscono folk, pop, rock e porzioni ben spalmate di beat e psichedelia. Perle assolute di cantautorato moderno e visioni nostalgiche (Brothers, I Was There e It’s Your Destiny), ma anche passaggi sperimentali come, per esempio, The Animator, Come For It, Original Slave e City Reprise che, più di ogni altra, sembrano drogarsi di atmosfere shoegaze e disturbi noise. Splendide anche Come to the City e Baby Missiles che confermano la qualità di questo nuovo lavoro della formazione americana (Philadelphia, Pennsylvania) che, ascolto dopo ascolto, dà sempre più l’impressione di unire certe cose di Bruce Springsteen, Bob Dylan e Tom Petty con quelle di band quali Ride, Slowdive e My Bloody Valentine. Il risultato è strepitoso e, parafrasando Jon Landau, possiamo tranquillamente affermare che “abbiamo visto il futuro dell’indie rock e il suo nome è The War On Drugs”. Quasi disco dell’anno. (Luca D’Ambrosio)

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✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 9 Agosto 2011

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