Se fosse lecito uccidere per un disco, lo farei per questo. Un piccolo fiore piantato nella musica americana e sbocciato proprio mentre i campi venivano stuprati da milioni di anfibi dell’ hardcore generation oppure riconvertiti in capannoni industriali dove si lavoravano tessuti sintetici e polivinilcloruro. Dirlo adesso non fa più nessun effetto ma allora, in quel 1980 stretto tra la furia cieca del dopo-punk e l’ elettronica polare, era difficile pure immaginarla, una roba simile. Una chitarra folk, un basso acustico da orchestra mariachi, un rullante, un secchio di latta, una voce implorante e atonale, dementi coretti beat e doo-wop, all’ occorrenza delle marimbas per supplire alle estemporanee assenze del piccolo tamburino americano. Un’ orchestrina da strapazzo, buona giusto per colorare le strade di Milwaukee e far sorridere qualche passante, per far tirare di canestro a qualche bambino che ha uno spicciolo da sprecare o accompagnare il passo malfermo di qualche ubriacone della città e offrire riparo a qualche randagio dentro la custodia troppo vuota e troppo grande del basso. La leggenda narra che a toglierli dall’incrocio tra la North Farwell Avenue e la E North Avenue per una notte siano stati Jame Honeyman-Scott e Chrissie Hynde dei Pretenders che proprio quella notte suonavano nel teatro alle loro spalle. A tirarli via da lì per sempre ci penserà l’ ostinazione di quei tre balordi che si sono scelti un nome da assorbenti e di Mark Van Hecke, il produttore che registra la loro prima demo nel suo studio casalingo e che si porta dietro quella cassetta ovunque vada abbandonandola sulle scrivanie di ogni etichetta dell’ area urbana di New York, come piccole zattere costrette al naufragio in quei mari troppo vasti per quelle travi di legno marcio. Ma ci pensa pure Robert Palmer, accreditato critico musicale per il New York Times che resta folgorato dalla forza del trio dopo averli visti in azione sul palco del CBGB‘s in apertura dello show di quello scoppiato di Richard Hell. E’ lui a offrire alla band un riparo sotto il tetto della Shake Records del suo amico Alan Betrock. Senonchè il tetto crolla quando la band è ancora chiusa ai Castle Recording Studios in compagnia del fido compare Van Hecke per registrare, finanziati dal papà di Victor DeLorenzo, i dieci pezzi che hanno destinato al loro album di debutto: sei pezzi dalla vecchia demo e altri quattro brani scelti dal repertorio a cui, ancora per qualche anno, i nostri attingeranno idee per i dischi successivi. L’idea è quella di un disco “old style”: dieci pezzi, cinque per facciata, con una ballata a chiudere ogni lato, come vogliono le vecchie esigenze viniliche diventate consuetudine di formato. Le registrano nella stessa sequenza con cui le suonano dal vivo, quelle dieci canzoni bislacche, quelle filastrocche balbuzienti, quelle folk songs con le linguacce, suonando di getto, errori e scordature comprese. Gordon Gano, Brian Ritchie e Victor DeLorenzo sono, in quel momento, un’alchimia perfetta. Il primo porta in dono il suo amore per menestrelli urbani come Lou Reed e Jonathan Richman e per il vecchio country di Hank Williams e della Carter Family, il secondo la sua passione per le svisate free e l’ epica dissonante e pazzoide di Sun Ra e Frank Zappa, il terzo un secco e rotolante effetto percussivo che suona come una massa di tamburi tirati giù per le scale di una villetta a due piani come le tante che affollano la periferia di Milwaukee. Eppure la loro ricetta non piace a nessuno, tra i grigi palazzi delle case discografiche. A nessuno tranne che ad Anna Statman della Slash. Quando Violent Femmes arriva nei negozi di dischi nell’aprile del 1983 nessuno sa bene in quale reparto piazzarlo. Nessuno sa cosa ci sia dietro quella finestra chiusa dai vetri ammuffiti da cui Billie Jo Campbell sbircia in punta di piedi sulla splendida copertina di Ron Hugo. Qualcuno lo mette in vetrina, come una stampa di inizio secolo ritrovata per caso in soffitta. E qualcuno entra dentro a comprarlo. Qualcun altro lo segue, fino a raggiungere quota 1.000.000 a fine decennio. E nessuno è mai tornato indietro a protestare. Ogni copia venduta, un prigioniero. Ogni canzone un altro giro di vite alle manette. Le corde del basso di Brian Ritchie si aggrovigliano come cime di un veliero in balia delle onde mentre Gordon affida i suoi tormenti (To the kill, Please do not go, Confessions, Prove my love, Good Feeling) e i suoi piaceri (Blister in the sun, Add it up) giovanili alle sue adenoidi e Victor picchia come un suonatore da marching band durante una parata. I tre soldatini di fango chiusi dietro i vetri carichi di fuligine sembrano divertirsi ma tutto è sormontato da un’ enorme risata amara. Dopo quarantatre minuti gettano a terra gli strumenti sfiniti e guardano verso la finestra. Billie Jo fugge via calpestando le squame di vernice secche come foglie d’ autunno e tagliandosi le dita su qualche coccio di vetro. Un attimo. E dietro le imposte divorate dal sole non resta che la luce accecante della prima estate folk-punk, di Billie Joe non rimaneche qualche goccia di sangue e l’eco delle sue risate. “Beautiful girl lovely dress where she is now I can only guess. She ‘s gone, daddy, gone.” (Franco Dimauro)
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