Ci sono proposte artistiche che si muovono su un piano diverso, rispetto all’ordinarietà, e relativamente alle quali il termine “straordinario” deve venir utilizzato nella sua accezione originaria di “fuori dall’ordinario”: qualcosa che, una volta assimilata ed esperita, ottiene come risultato lo “spostamento” dei confini del possibile più in là, abbracciando una parte di ignoto, dove una volta campeggiava una (metaforica) dicitura “hic sunt leones”. È in questo quadro che va visto l’album di esordio dei Terra Tenebrosa, sotto le cui inquietanti maschere da spiriti primordiali della natura si nasconde un numero imprecisato di ex componenti dei seminali Breach (la via scandinava al post hardcore, una band che va rivalutata e riscoperta nel suo essere stata così follemente “avanti”, così destabilizzante e psicotica). Un album, premettiamolo subito, strepitoso, intimamente terrorizzante e lovecraftiano, pregno com’è di un sentimento insinuante di paura ancestrale e di siderale ed incontrollabile proiezione verso l’ignoto. Su riff di chitarra dal suono rigorosamente e strepitosamente “analogico”, scarnificati brandelli di noise rock che in alcuni terribili momenti sospendono se stessi in arpeggi di sapore post rock, sorretti da un drumming spesso ossessivo e tribale, si innestano vocals salmodianti ed orrorifiche che tanto ricordano le preghiere che il genio di Providence attribuiva ai bestiali adoratori delle divinità dello spazio vuoto e terribile che concepì. Il flusso di voci, continuo, ossessivo, stregonesco, voci sussurranti, oranti, deformate che si intrecciano davanti allo sfondo metronomico e marziale degli strumenti rende l’ascolto di questo platter un’esperienza che non si può definire in altro modo se non “religiosa”, se con religiosa si intende processionale, ripetitiva, alienante, rituale. A tutto ciò, come è ovvio, non è estraneo un certo mood black metal, non musicale ma attitudinale, per la facilità di approcciare l’”estremo” in genere e per il culto/terrore della natura Onnipotente e Terribile. Menzionare singole tracce non avrebbe senso, l’opera va affrontata, subita o respinta nella sua totalità, consapevoli della sua difficile consistenza, che nulla ha a che vedere col relax o il poco “impegno” richiesto da quanto viene spacciato oggi per arte musicale e che invece, troppo spesso, costituisce mera, superflua appendice. Un’esperienza incredibile, spaventosa, extra ordinaria che contiene un enorme patrimonio di emozioni con cui è diventato difficile, se non impossibile, fare i conti: i mostri, dentro e fuori. A meno di sorprese improvvise e al momento imprevedibili, disco dell’anno. (Valerio Granieri)
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