50% istinto, 50% calcolo. Kurt Cobain ci mette il primo. Butch Vig il secondo. È così che nasce Nevermind, il transatlantico che porta l’indie rock nell’oceano dei piranha. Un cargo da cui traboccano canzoni, così tante che alcune cadono in acqua: Dive, Immodium, Here she comes now, Sappy, Old Age. Even in his youth, Moist Vagina, Aero Zeppelin, Gallons of rubbing alcohol flow through the strip, Marigold, Verse Chorus Verse, Endless, Nameless verranno recuperate da qualche scialuppa di salvataggio perché non meritano di annegare. Tutto il resto rimane sul ponte, a fare questa traversata che porterà il rock di Seattle nei porti affollati di tutto il mondo. “Il resto” sono dodici canzoni. Le dodici canzoni più belle del mondo. Se hai vent’ anni possono diventare le canzoni della tua vita. E infatti lo diventano per tanti. E così mentre qualche rivista bacchettona impegna le migliori firme per scrivere colonne e recensioni boxate per quel monumento ai caduti che è Use Your Illusion dei Guns ‘n Roses dedicando solo un paio di cartelle al “secondo disco dei Nirvana”, Kurt, Chris e Dave demoliscono il rock indipendente e ne fanno un affare colossale, sdoganando il rock underground alle masse. È da lì che Kurt viene. Ed è lì che il suo cuore rimane, per sempre: Meat Puppets, Vaselines, Pixies, Scratch Acid, Butthole Surfers, Young Marble Giants, Shonen Knife, Sonic Youth, Melvins, Beat Happening, Wipers, Saccharine Trust, Marine Girls, Half Japanese, Raincoats. Prende in prestito un po’ da tutti, e ci aggiunge il suo dolore personale. Sono le uniche cose che Kurt vuole condividere, due cose troppo grandi da tenere per sé: dolore e arte pop. Di queste cose è fatta la sua musica, già dai tempi di Bleach, orfano però di quel 50% di calcolo di cui dicevamo in apertura. La produzione di Butch Vig serve a ripulire le scorie metalliche del primo disco: immaginate quell’ album come un tondino di ferro incandescente. E adesso pensate alla mano di Butch che infila per qualche secondo quel tondino infuocato dentro una vasca di acqua fredda e lo ritira fuori sprigionando vapore e sbuffi liquidi di acqua bollente. Ecco, quella è ORA la musica dei Nirvana. La musica di Nevermind. Un album che, non a caso, si intitola come il disco dei Sex Pistols, anche se pare nessuno ci abbia mai fatto caso. Come quello, non solo un disco “generazionale”, ma un disco “epocale”, nato come istantanea di un momento di creatività collettiva e finito col rappresentare la foto definitiva di un percorso personale e universale di ascesa, affermazione e sconfitta. Musicalmente non ci si discosta dal modello reso celebre poco prima dai Pixies: melodia deturpata da improvvisi squarci di rabbia. Un angst che Cobain rappresenta con estrema catarsi e che quindi può diventare anzi, diventa subito immagine iconografica e simbolica di una insoddisfazione che è biologicamente giovanile e concettualmente condivisibile. Come Jim Morrison, nella sua disperata fame di vita Kurt Cobain è già morto prima di morire. La sua musica si trasforma rapidamente da veicolo di fuga in camera iperbarica. Il palco diventa una prigione. La camicia di flanella un deltaplano in picchiata. Ma Nevermind non va giudicato col senno di poi. Non va ascoltato sfogliando la cronaca nera taggata Cobain. Nevermind non merita necrologi, perché è vivo. Disperato, estremo ma vivo. Se ve lo vendono come l’urlo disperato di uno che sta per ammazzarsi, diffidate. Kurt non ve lo venderebbe mai, un disco così. Kurt era così fiero della sua musica che non le avrebbe mai affidato un compito così greve. Nevermind è il ruggito di tre ragazzi che stanno dipingendo il mondo prima di portarselo via con loro. Venticinque anni dopo i Doors. Quindici anni dopo i Sex Pistols. Qualcuno sta provando a farlo dopo di loro. Spero. (Franco Dimauro)
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