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The Telescopes – Taste (1989)

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Assieme a Psychocandy e Sound of confusion, Taste servì a costituire la Sacra Trimurti del feedback pop inglese degli anni Ottanta. Un rumore da officina siderurgica che soffoca ogni cosa. Taste nasce sotto effetto delle droghe. Triptizol, per l’ esattezza. Un antidepressivo triciclico al cui abuso Stephen Lawrie sopravvive a stento, quando è appena diciottenne. La crisi di astinenza che ne segue mette in circolo tossine e scorie che Stephen cerca di eliminare in ogni modo. Vomita ed urina ad ogni ora del giorno e della notte. E scrive larve di canzoni spalmate su brandelli di rumore bianco. Come se non bastasse, il resto della scaletta di Taste viene composta nell’ appartamento che Dominic Dillon (diventato nel frattempo batterista “in pianta” stabile, NdLYS) condivide con una serie imprecisata di spettri. Che stavolta, a differenza di quelli di Stephen, non sono presunti. Ma i ragazzi sfruttano la cosa a loro vantaggio: nessuno frequenta il palazzo, a causa dei fantasmi che lo abitano, e così danno fondo alla loro risorsa di rumore. Sempre più forte, sempre più violento, tanto da atterrire pure i fantasmi. Quando alla fine portano i loro strumenti alla Track Station, Stephen non è ancora sazio. Vuole ancora più rumore, vuole che sia indomabile. Suggerisce a Ken MacPherson, uno dei due produttori del disco, di alterare i pedali fuzz fino a renderli ingovernabili. Sempre Stephen suggerisce a Ken e Chris Bell l’ idea di piazzare un ventilatore tra l’amplificatore del basso e il microfono per creare l’effetto oscillante dentro il caos di Suicide, il collasso conclusivo che chiude il disco. I fall, she screams, Violence, Threadbare, There is no floor, Suffercation, Silent Water lungo lo snodarsi del disco sono percorse dalla medesima follia feroce e perversa. Una torrida colata di rumore bianco e purpureo che ustiona la carne, un altoforno dove il pop anoressico della pallida Albione viene forgiato come una lamiera di ferro rovente. Una zecca abusiva dove viene coniata la nuova moneta del rock psichedelico dell’era post-atomica. Non chiedetevi che “sapore” abbia, chiedetevi piuttosto se riuscirete a sopportarlo. (Franco Dimauro)


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