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The Doors – Strange Days (1967)

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Joe Boyd, che proprio in quel periodo inizia la sua carriera di produttore con le registrazioni di Incredible String Band e Pink Floyd, lo cita ancora come l’album meglio registrato di tutti gli anni Sessanta. Più di Sgt. Pepper‘s, l’album che, nonostante fosse uscito ufficialmente solo tre mesi prima, i Doors e il loro producer ascoltano in largo anticipo grazie all’acetato portato clandestinamente dai Turtles, la band che Paul A. Rothchild sta producendo, e che avrà una fortissima ascendenza sull’elaborazione concettuale e tecnica del secondo album della band californiana accentuata dalle nuove opportunità tecniche offerte dalla registrazione su otto tracce che i Doors saranno i primi a sperimentare, proprio con questo loro secondo disco che raccoglie molti degli “scarti” del debutto, tra cui la Moonlight Drive che un drogatissimo Morrison aveva bisbigliato alle orecchie di Ray Manzerek sulla spiaggia di Venice Beach, nell’estate dell’anno precedente aprendo le porte della percezione e lasciandole spalancate. Su un baratro. Sono passati pochi mesi dall’ esordio e i Doors sono stati travolti dal successo. Hanno già cominciato a pagarne il prezzo, a dire il vero. I loro volti scompaiono dalla felliniana copertina di Strange Days ma quello di Morrison fa velocemente il giro di tutta la polizia federale degli Stati Uniti. Jim è il capro espiatorio per mettere al rogo l’estate dell’amore. Lui è il nemico pubblico numero uno. Un sovversivo, rivoluzionario, alcolizzato, osceno e immorale hippie che si crede un poeta. Musicalmente e liricamente Strange Days fa però meno paura del suo giovane progenitore: è un disco più domabile, fragile. I desideri sessuali sono stati evidentemente appagati, spesso nel backstage di qualche concerto e ora Jim canta più della paura di non essere accettati che del desiderio di venire adorati. C’è tanta infelicità e bisogno d’ amore in questo disco, tante ragazze tristi, sguardi incattiviti, ginocchia che tremano e musica che si spegne. Strani occhi, strana gente, strani giorni. Pure la musica ha sciolto grandi dosi dell’ acido dei primi giorni spostandosi verso tonalità più barocche modulando il caratteristico suono dell’ organo di Ray verso tonalità da corte ottocentesca. Un Bach spilungone piegato sul suo clavicembalo. Jim dal canto suo si abbandona (You ‘re lost little girl, I can‘t see your face in my mind) al registro del cantante confidenziale che lo ha sedotto nelle registrazioni di Frank Sinatra di cui si sfama proprio durante quei “strani giorni”. Come per The Doors il sipario del disco è affidato a un minidramma in cui Jim può mettere a nudo tutto il suo carisma di sciamano e di abile incantatore e seduttore di folle ricorrendo ai suoi noti trucchi ipnotici. Nata come improvvisazione strumentale (Jim aveva ancora una volta “dimenticato” di presentarsi in studio preferendo un acido in compagnia della sua Pam alle estenuanti sedute di registrazione ai Sunset Sound Studios) When the music ‘s over è un raga psichedelico che si snoda lungo undici minuti in cui il suono doorsiano torna alle sue origini: chitarre languide e scivolose, organo giocato sulle ottave alte (con un attacco rubato da Manzarek alla Cantaloupe Island di Herbie Hancock, NdLYS), momenti di languida arrendevolezza e improvvisi squarci di rumore incontrollato, in un crescendo emotivo che Morrison interpreta come la chiave d’ accesso al terzo occhio. La Elektra affida le sorti commerciali del disco al blues scontato di Love me two times (uno dei pochi testi non scritti da Morrison) e alla banale marcetta di People are strange, fallendo in entrambi i casi l’approdo alla zona calda delle classifiche, dimostrando che al pubblico mancava anche il primo, di occhio. Dopo aver immolato Morrison alla croce del martirio ovviamente Strange Days diventerà uno dei quattro vangeli canonici del culto dei Doors. Io continuo a considerarlo abbastanza noioso. Anche chiudendo gli occhi, tutti e tre. (Franco Dimauro)


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