La pubblicazione di un disco degli Acid House Kings costituisce per chi vi scrive un piccolo evento dovuto non solo alla passione per la musica indie scandinava ma soprattutto alla credibilità che questa band ha acquisto nel corso degli anni nell’ambito del panorama pop. Nel corso d’una carriera ormai quasi ventennale “i re acidi”, infatti, hanno saputo ridefinire il senso stesso dell’indie pop elaborando un sound che racchiude mirabilmente tutte le molteplici caratteristiche di questo genere. Non tantissimi dischi (Music Sounds Better with You è il quinto) ma tutti (soprattutto gli ultimi tre a chiudere una trilogia iniziata nel 2002 con l’indimenticato Mondays Are Like Tuesdays and Tuesdays Are Like Wednesdays) confezionati con certosina cura per il dettaglio sonoro. Reserche della perfezione che di fatto pone gli Acid House Kings al di fuori del recinto indie in cui si pretenderebbe di collocarli. La maniacalità per gli arrangiamenti, un sound che si offre come un unicum compatto pur nella miriade degli espliciti rimandi, il gusto per la melodia che si incastri perfettamente nel format classico della canzone popolare (introduzione, strofa, ritornello, strofa, ritornello) non sono certamente (o lo sono solo in parte) le caratteristiche del lo-fi indie pop nato negli anni ’80 in Inghilterra e sviluppatosi poi nel resto del mondo (Svezia compresa) caratterizzato da povertà produttiva e approssimazione compositiva (compensata, però, da ispirata immediatezza). In realtà, ciò che lega la band di Stoccolma a quel mondo è – nella variante twee-pop della cui estetica sono portabandiera – l’amore per i gruppi vocali degli anni ’60 e l’attitudine, al di là della precisione, alla semplicità (anche nella scrittura) che cristallizzi un mondo sonoro in cui i brani seguino – come nella vita – un’alternanza emotiva di allegria contagiosa e momenti più malinconici. Music Sounds Better with You, però, supera la semplice caratterizzazione indie-pop presentandosi come un centrifugato di tutte le sue varianti più celebri: l’effervescenza bubblegum delle band della Siesta o della Elefant, la naivitè di Pelle Carlberg, l’understatment autoironico di Jens Lekman, l’universo Sarah Records fino a tangere le sonorità dei Belle and Sebastian e dei Camera Obscura, campioni scozzesi del pop indipendente degli anni ’90 che più d’un debito vanta nei confronti della “anorak scene”. Are we lovers or are we friends? che apre l’opera potrebbe essere il manifesto del pianeta sonoro degli Acid House Kings: una melodia appiccicosa che con i suoi cori disegna un’atmosfera festaiola nella migliore tradizione svedese ma che qua e là maschera un’inquietudine tipica delle bands britanniche. Il resto del disco si presenta su questa stessa cifra sonora offrendoci, però, delle varianti sorprendenti: l’handclapping su un tappetto di tastiere di Windshield, lo shoegazing di Under Water, i delicati arrangiamenti d’archi e tastiere della deliziosa (I’m In) A Chorus Line, la lussuria tanghera delle nacchere e della chitarra classica di “Where have you been”, l’uptempo di There Is Something Beautiful, il pop folkeggiante con contorno di fiati in I Just Called to Say Jag Älskar Dig, l’evergreen di Heaven knows I miss him now (pura stupefazione Abba). Dobbiamo essere grati, dunque, a Niklas e Johan Angergård e a Julia Lannerheim per un disco di tale spessore musicale, allo sforzo che ogni volta compiono (con eccelsi risultati) per regalarci qualcosa che si avvicini alla “perfect pop song” e che, pertanto, (questa è la missione del pop) possa donarci la felicità (sonora). (Nicola Pice)
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✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 14 Ottobre 2011