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Family Life di Ken Loach (1971)

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Assai attivo come autore e regista per conto della BBC, Ken Loach utilizza per il suo ritorno sul grande schermo un soggetto originale – “In two minds” – dello scrittore inglese David Mercer (che viene accreditato alla sceneggiatura) pensato qualche anno prima per la televisione e incentrato prevalentemente sulle eleborazioni teorico-culturali e sull’esperienza clinica dell’antipschiatria di R.D. Laing e David Cooper (che in Italia ebbe come più illustre seguace Franco Basaglia). Loach anche stavolta segue una metodologia stilistica ispirata ai dettami del “cinema diretto”: essenzialità documentaristica delle riprese che riduca il più possibile in fase di post-produzione le tecniche di manipolazione in uno sforzo di semplificazione del linguaggio audiovisivo (assimilabile, dunque, alle opere televisive) che riproduca fedelmente la realtà evidenziandone le contraddizioni. La descrizione drammatica delle vicissitudini personali della diciannovenne Janice che soffre di disturbi psicologici in quanto vittima della famiglia e delle istituzioni (la repressione ospedaliera) è il robusto tessuto narrativo che consente all’autore inglese di estrarre, comunque, gli elementi di un’analisi profonda sulla decadenza della società britannica senza, però, rinunciare ad una lirica delicatezza nella trattazione del disagio mentale. Costretta dalla madre ad abortire e ricoverata in clinica dopo aver passato una notte nella casa del suo ragazzo ed essersi ribellata ai rimproveri dei genitori, Janice riceve le cure del dottor Donaldson che applica i principi dell’antipsichiatria (ascolto e dialogo) ma non riesce a completare un percorso di completa guarigione perchè l’ospedale torna ad adottare i metodi della psichiatria tradizionale (farmaci ed elettroshock) che restituiscono alla famiglia Baildon una ragazza completamente abulica e intontita. L’ulteriore tentativo di abbandonare la casa paterna determina un altro ricovero durante il quale le viene impedito di frequentare un ragazzo nelle sue stesse condizioni: la fuga dall’ospedale (con l’aiuto del ragazzo che l’aveva messa incinta) è vana e definitivamente controproducente perchè da quel momento in poi la sorveglianza e le cura psichiatriche saranno più dure fino a renderla un “esemplare” caso clinico di apatia esibito da illustri luminari nel corso di lezioni universitarie di medicina. Lo stupore amaro del regista davanti agli errori clamorosi commessi da chi dovrebbe somministrare terapie giuste e amorevoli si accompagna ad un’indignazione angosciata per la consapevolezza dell’impossibilità di giungere ad una soluzione favorevole per l’anello più debole di questa catena di sofferenza. Loach sostiene con evidente chiarezza che le origini della malattia di Janice (e più generalmente le cause del disagio umano) siano socio-familiari e non psicologiche né tantomeno organiche. Il principio di autorità, indispensabile al funzionamento di qualsiasi organizzazione complessa, è degenerato – sembrerebbe dirci il regista – in un autoritarismo feroce che non ammette in maniera alcuna la manifestazione del dissenso, dello spirito critico o dei desideri individuali che siano diversi da quelli già tracciati dal “pensiero unico” omologante che è connesso e necessario alle esigenze di espansione e rafforzamento del capitalismo avanzato nelle istituzioni economiche, statuali e (anche) familiari. Nella malinconica rappresentazione di una “old Britannia” prigioniera di un ormai lontano passato vittoriano, avviata, al contrario, ad un futuro di degrado e povertà foriero di profondi cambiamenti e turbolenze sociali che produrranno (come si vedrà più avanti negli anni) la contro-rivoluzione iper-liberista della Thatcher, Loach (pur convinto uomo ed artista di sinistra) comunica allo spettatore le proprie personali perplessità sulla costruzione di un mondo più giusto e democratico. Il ripristino dei tradizionali e invasivi metodi di cura, la sconfitta delle teorie dell’antipsichiatria, l’ospedalizzazione di una Janice catatonica equivalgono, infatti, alla resa simbolica degli esseri umani ad un processo inesorabile di mostruosa disumanizzazione, a quella oggettivazione dello spirito che nei rapporti capitalistici si chiama “alienazione”. Il sole dell’avvenire, dunque, è ben lungi dal sorgere e il socialista Ken Loach, purtroppo, lo sa benissimo. (Nicola Pice)


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