Prepararsi per andare a vedere il concerto di Leonard Cohen fa uno strano effetto e, a voler esser sinceri, non saprei dirvi esattamente perché. Esco di casa verso le diciotto e mi appresto a percorrere a piedi soltanto qualche centinaio di metri perché la buona sorte ha voluto che lo spettacolo di questa sera si tenesse proprio a due passi da casa, esattamente a Torwar, il palazzetto dello sport vicino lo stadio del Legia Varsavia. Però, manco a dirlo, oggi è domenica e c’è la partita serale della squadra padrona di casa e vi lascio soltanto immaginare il caos di auto e cortei nel vicinato. Percorro, quindi, un pezzo di strada a piedi in compagnia di drappelli di tifosi chiassosi che, solerti, si dirigono verso il campo di gioco. Mi confondo tra di loro, almeno così credo, e con passo veloce seguo la lunga fila di sciarpette e bandiere, più o meno fino all’altezza dei cancelli d’ingresso dello stadio, per poi cambiare improvvisamente direzione. La temperatura oggi è calata notevolmente e il cielo è grigio, di quel grigio immobile che in un solo istante sembra chiamare a raccolta tutti i pensieri di una vita. Davvero una strana sensazione.
Arrivo davanti al palazzetto con una buona mezz’ora d’anticipo e con sorpresa mi accorgo che in fondo non ero l’unico a confondersi in quella fiumana di supporter. Entro e mi metto subito a sedere, mentre il palasport va lentamente riempiendosi. Il pubblico è quello delle grandi occasioni con un buon numero di giovani ma soprattutto con gente adulta, distinta e ben vestita. L’organizzazione è perfetta, direi, esageratamente perfetta: tutti i posti sono rigorosamente a sedere. Io sono a una decina di metri dal palco, a sinistra. Intanto su due grossi schermi vengono proiettati due cuori che si intrecciano, uno dritto e l’altro capovolto, che formano una specie di stella ebraica, sicuramente per ricordare le origini del poeta e cantautore canadese che da diversi mesi è in tour mondiale per presentare l’album dal vivo Songs From The Road (2010). Sono trascorsi appena quindici minuti dall’orario prestabilito (le diciannove) ed ecco che le luci si spengono. Scatta l’ovazione quasi “da stadio” di un palazzetto dello sport gremito, tant’è che per un instante mi chiedo se ho sbagliato ingresso, tutto questo mentre una luce di un color giallo/arancione illumina la scena sul cui sfondo appaiono, uno alla volta, tutti i componenti del gruppo.
Sono quasi tutti vestiti elegantemente e con un berretto sulla testa, e l’immagine che ne viene fuori è una sorta di “Blues Brothers” dal vivo (ma con le note di Dance me to the end of love ad aprire le “danze” e con un Leonard Cohen che entra saltellando, togliendosi il cappello in segno di saluto). Ad accompagnarlo c’è una band di tutto rispetto formata da Roscoe Beck (basso elettrico e contrabbasso), Neil Larsen (tastiere), Bob Metzger (chitarra elettrica), Javier Mas (chitarra acustica, bandurria), Rafael Gayol (batteria), dal polistrumentista Dino Soldo (clarinetto, sax, armonica…) e dalle straordinarie Webb Sisters (Charlie & Hattie) che consigliamo vivamente di ascoltare. C’è un bel feeling tra il cantautore e i musicisti e lo si intuisce immediatamente con le successive The Future e Bird on a wire ma è con Everybody knows che questa sintonia fatta di musiche e parole prende il sopravvento coinvolgendo chiunque. Da Who by fire passando per Hey that’s no way to say goodbye tutto e tutti sembrano profondamente in armonia, fino ad arrivare alle nuove (e inedite) The darkness e Born in chains dove Leonard Cohen appare ispirato come un ragazzo di primo pelo. Sarà forse questa la grandezza di un vero artista?
Ogni brano sembra essere cantato come se fosse la prima volta, è il caso infatti di Chelsea Hotel #2, Waiting for the miracle, Anthem e Tower of song, la mia preferita della serata dove Cohen mette da parte la chitarra per cantare e suonare in punta di dita una piccola tastiera. Un’esecuzione da brividi! Gli spettatori sembrano rapiti dalla sua voce d’oro che con Suzanne, poi, raggiunge livelli di assoluta poesia. Un Leonard Cohen che canta, che danza e che ringrazia ossequiosamente i propri musicisti ma soprattutto il proprio pubblico che si lascia trasportare dalle sempreverdi Avalanche, Sisters of mercy, The gypsy’s wife e da un altro brano nuovo e inedito, Feels so good. Una platea entusiasta, insomma, che intona meravigliosamente Hallelujah e che sembra non abbia alcuna intenzione di andare via nonostante le oltre due ore e mezza di concerto. Tuttavia Cohen è in splendida forma e dopo Take this waltz riesce a concederci un lungo bis prima con So long, Marianne e First we take Manhattan poi con Famous blue raincoat, If It be your will, Closing time e infine con I tried to leave you fino a chiudere l’emozionante show con Ain’t no cure for love. Un Leonard Cohen sempre più innamorato che, a dispetto dei suoi settantasei anni, si commuove ancora come se fosse un bambino. Davvero una “strana” sensazione. Che Dio lo benedica! (Luca D’Ambrosio)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 14 Ottobre 2011