Alexi Murdoch ha scelto il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica come prima e unica data italiana, a chiusura del tour europeo che lo ha portato in Germania, Regno Unito, Belgio, Austria. La sala è quasi piena, nonostante manchi ancora un po’ all’inizio del concerto. Poco dopo le 21, le luci si spengono, fatta eccezione per qualche timido faro blu puntato sul palco. Alexi entra in punta di piedi, con una delicatezza che caratterizzerà l’intera esibizione. L’inizio é ipnotico, grazie al suono registrato della chitarra, mandato on air con una loop station, che coinvolge l’ascoltatore e lo introduce sin da subito in quello che sarà il mood del concerto. Non appena il cantautore scozzese intona “Through the dark”, si palesa il motivo di tanto clamore intorno alla sua carriera: é un ottimo musicista e performer oltre ad avere una spiccata sensibilità artistica ma ciò che colpisce maggiormente di Murdoch é senza dubbio la sua voce. Vellutata, mai invasiva, accarezza le note della chitarra e il cuore di chi ascolta, con una grazia tale da lasciare senza fiato. In scaletta si susseguono sia brani dell’ultimo album “Towards the sun“, come “Some day soon” e “At your door“, sia pezzi tratti da “Time without consequence” del 2006, tra cui “Blue mind” e “All my days“. Trattandosi di un artista completo, non mancano neppure momenti di improvvisazione in cui le chitarre lasciano spazio ad altri strumenti, da quelli più tradizionali, come il pianoforte, a qualcosa di diverso e particolare, come l’armonium. Il paragone con Nick Drake é inevitabile, ascoltando a occhi chiusi uno dopo l’altro i brani di Murdoch: tuttavia, seppure a tratti struggente e malinconica, la musica di Murdoch si discosta da quella del suo predecessore a cui così spesso viene affiancato perché non si addentra in quel sentiero oscuro che era il pesante stato depressivo di Drake. Quanto quest’ultimo non riusciva a reggere il confronto con il pubblico, tanto Murdoch é a suo agio sul palco, interagisce con i suoi fan, é persino molto spiritoso. Lo show dura, purtroppo, poco più di un’ora ma è sufficiente per farsi ammaliare da un cantautore folk moderno, capace di non essere mai ripetitivo o banale, pur muovendosi in un terreno in cui il rischio di cadere nel “già sentito” è piuttosto forte. Resta il suono della sua voce a cullare una piovosa sera romana di dicembre, con la certezza che sentiremo presto parlare ancora di lui. (Laura Carrozza)
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