Fai un salto. Fanne un altro. Fai la giravolta. Falla un’altra volta. Così, di salto in salto, invecchiando senza neppure accorgersene, lasciandosi dietro i migliori anni della loro vita, dopo aver frequentato le elementari all’istituto Ramones, i Peawees hanno finito per scrivere e suonare il loro disco migliore. Strano? Nemmeno poi tanto. Anche io scopo di più e meglio a quaranta anni che a venti. Chiedete in giro. Leave it behind è un album punk senza musica punk. Come il primo disco di Elvis. Un disco che infila un piede nella merda di James Brown e l’altro in quella di Pete Townshend e infila il muso dentro undici portate che abbondano di aromi soul, rockabilly, funky, R‘n’B, blues, power-pop e garage servite con contorno di piano Rhodes, fiati, armonica, cori, organo elettrico. Un disco che ha una sua classe e una sua disciplina, come quei vecchi gruppi degli anni Cinquanta e Sessanta che suonavano in abito da sera la loro versione di Farmer John facendo brillare la loro dinamite dentro le serate danzanti del liceo della città. Un disco che evita lo sdegno di questi anni e si rifugia nella forza ingenua di un riff azzeccato, di un gancio melodico da poter inseguire durante un viaggio in auto, di una felice combinazione di colori. Leave it behind è un disco lanciato contro l’imbrunire troppo repentino di un secolo che avevamo caricato di aspettative disattese prima ancora di poterne godere. Un disco fermo nella piazzola di sosta di un motel aspettando di vederlo passare, questo Medioevo ultimo venuto, facendo finta di nulla. Grazie per averci concesso mezz’ora di vita. Nessuno tocchi Caino, nessuno tocchi i Peawees. (Franco Dimauro)
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