Alla ricerca (spasmodica) di nuovi talenti, e/o di progettualità che aprano spiragli di luce (e di speranza) su una realtà – quella del rock – fin troppo involuta, ci imbattiamo in Lewis Floyd Henry, inglese con sangue giamaicano nelle vene, un artista di strada che si è fatto le ossa sui marciapiedi e nella metropolitana di Londra e ha attitudine esistenziale borderline e look strumentale a corredo da one man band, di quello che ricordo d’aver visto sul finire dei Settanta esibirsi per strada dalle parti del porto turistico di San Francisco, ma con un impeto sonoro di gran lunga più convincente e pregevole. Un menestrello strampalato con cilindro in testa e giacca strapazzata, e al seguito un carrettino con tanto di amplificatore, chitarra e batteria, che incarna gli hobo che suonavano nell’America della Grande Depressione agli angoli delle vie. Un busker che non deve essere passato inosservato in una città curiosa per la musica com’è la capitale inglese se poi ha dalla sua anche qualità artistiche e suggestioni da dispensare al prossimo, e tali da suscitare l’interesse intorno a lui di importanti testate quali Mojo e The Guardian. Così il passo verso l’incisione del primo album è stato più che breve e quasi automatico. “One Man and His 30w Pram” – il titolo fa riferimento proprio alla sua condizione di musicista on the road -, fatto di dodici canzoni originali prodotte da Ferg Peterkin, ci consegna Lewis alle prese con un repertorio ‘lo-fi’ dal piglio evocativo che si muove tra blues estremo ed incandescente, un country straniante, accese contaminazioni punk, una sorta di psychedelic-folk, il drum ‘n’ bass, riverberi dub reggae alla Marley e tocco chitarristico mutuato da Hendrix, e inevitabili influenze soul, quasi d’obbligo per uno che si propone come un proletario della musica. Il suo vocalismo ha un tono forte e sicuro, decisamente sfrondato, in “Rickety Ol’ Roller Coaster” ricorda Mick Jagger da giovane, “Guardian Angels” ha un accattivante e ampio respiro, “Sentimental Values” è mirabilmente psych mentre “Went To A Party”, “Good News” e “Magic Carpet” devono molto all’amato Hendrix. Nick Drake e Robert Johnson sono poi sicuramente altri suoi beniamini. Un disco rinfrancante perché genuino. (Luigi Lozzi)
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