Mr. Wudy, il proprietario dello zoo, era più nervoso del solito. Imprecava e sputava a terra. Riuniva in sé tutte le caratteristiche fisiche delle bestie intontite che ospitava nel suo parco. A furia di lavorarci per una vita si era trasformato esso stesso in una sorta di superbestia. Capita a tutti, dagli impiegati di banca ai militari, dalle zucchine modificate geneticamente ai clienti del McDonald‘s di diventare del tutto uguali al posto dove abitano, come una moquette. Ma lui faceva più impressione di tutti gli altri. Aveva il collo allungato e contorto che ricordava quello della giraffa Sue e del cigno Mirna, il petto villico come il gorilla Zarba, le orecchie pelose come la lince Raffaella, il culo basso come l’ippopotamo Rudy, le gambe arcuate come il mandrillo Gonzo e le squame sulle braccia come il coccodrillo Fritz. In più scoreggiava come la puzzola Suzi e grugniva come Goofy, il suino zoppo dell’area bambini del suo parco. Era tutti i suoi animali insieme. E quel giorno lo era ancora di più. C’era da ripulire la gabbia della leonessa Amy. C’era da sgombrarla della sua carcassa. Povera leonessa Amy. Infelice regina dello zoo. Eppure quando l’avevano portata lì qualcuno, nel chiudere a doppia mandata quelle sbarre d’ acciaio lo aveva pure sospettato. “Questa leonessa ha il blues”. Qualcuno aveva riso. Si ride sempre quando qualcuno dice qualcosa di simile. Voi non ridereste? Sì che ridereste. Anche voi che avete il blues e lo chiamate con un altro nome e pagate qualche strizzacervelli per cacciarlo via, come fosse un male incurabile. Risero tutti infatti. Ma la leonessa Amy aveva il blues. Davvero. Anche se la amavano tutti e le lanciavano i loro avanzi, lei aveva il blues. Pure mentre i bambini ridevano della sua chioma e le lanciavano in faccia qualche bonbon di zucchero e coloranti, lei aveva il blues. E quando le dicevano di mettersi in posa perché c’era una foto nuova da scattare, una ripresa da far vedere ai familiari spanzati che aspettavano sul salotto di casa, un ricordo da affiggere sul muro di una qualche cazzo di casa ben arredata di una famiglia borghese qualsiasi, lei aveva il blues. Mr. Wudy chiamò a grandi gesti uno dei suoi operai, gli disse di mettersi guanti e mascherina e gli ordinò di tirare fuori quella carcassa maleodorante dalla gabbia. Alle 10 avrebbero aperto i cancelli e centinaia di bambini intontiti dalla Playstation e di genitori danarosi avrebbero invaso il parco. Non era proprio il caso di mostrarla così, la leonessa Amy. Avrebbero dirottato tutti nell’angolo dei gadgets e avrebbero venduto le tazze di ceramica marcia con la sua foto sopra, i piattini da colazione con il suo fiocco stampigliato a caldo, come fossero quelli di Hello Kitty. C’erano un sacco di foto delle passate stagioni dove Amy sembrava una belva della giungla, anche se aveva sempre quel blues dentro e pure se nessuno sembrava accorgersene. Avrebbero venduto quelli. Amy non c’è, è stata trasferita altrove, era ammalata. E sull’onda emozionale di quella frase avrebbero venduto piatti, tazzine e foto ritoccate. L’operaio tornò dopo una buona mezz’oretta. Disse che aveva rimosso la carcassa ma che la gabbia era da disinfettare perché era piena di merda. Mr. Wudy gli disse di fare in fretta. Il Natale era alle porte. Venderemo anche quella! gli disse ghignando come la jena Buzz mentre l’ operaio si infilava i suoi guanti di latex. Addio, leonessa. (Franco Dimauro)
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