Se fosse una favola inizierei con “C’era una volta un ragazzino che aveva sei dischi e forse sette cassette ma già un gruppo preferito, i Van Halen!” e sarebbe una favola breve perché mentre stavo ancora cercando di capire quanto fosse grande questa band, tra le pagine della vecchia rivista Ciao2001 lessi un trafiletto che parlava dell’addio di David Lee Roth. Era il 1985, da allora solo una lunghissima, silenziosa attesa, carica di speranza e che oggi si concretizza in un reunion album nuovo di zecca che pone fine a interminabili lustri in cui, da una parte i patinati Van Hagar erano diventati un’altra band e dall’altra, David era passato dalle vette della DLR band a un declino che con il tempo ha finito con l’assumere tratti anche imbarazzanti Eccolo, finalmente. Quello che stringo avidamente è il compenso per anni trascorsi patendo le tante promesse non mantenute, i rumors fuorvianti nonché il boccone amaro della reunion farlocca del settembre 96 agli MTV Awards vissuta con isterica eccitazione davanti alla tv: tanti, davvero tanti, anzi troppi frizzi, lazzi accuse e rivangamenti che a poco hanno giovato alla giusta preservazione di un nome che comunque incarna pur sempre leggenda. In barba ai tempi moderni, eccezion fatta per il singolo Tattoo mi sono rifiutato di cedere all’ascolto preventivo di samples, mp3 o anticipazioni di sorta, la mia è stata una crociata in salsa ottantina, come quando da ragazzino fremevo fino al momento di scovare un disco al negozio, portarlo di corsa a casa e ascoltarlo fino allo sfinimento. In questo frattempo ho ravvisato in giro un po’ di scetticismo, derivato dal fatto che la colonna vertebrale di questo disco è costituita da vecchie composizioni lasciate nel cassetto alla fine degli anni ‘70: cosa dovrei fare quindi? Alterarmi perché hanno messo mano a brani magari minori ma scritti in un periodo di stato di grazia irripetibile? Al limite è la grossa nota stonata dell’assenza di Michael Anthony a farmi girare le palle, quello sì! Dal canto suo il disco fila spedito come la locomotiva d’acciaio che campeggia sulla cover; ovvio, non c’è una Unchained in scaletta, una Running With The Devil e nemmeno una gemellina di Somebody Get me a Doctor ma la cosa non mi allarma, quando ho bisogno di quei capolavori so dove andare a pescarli. In compenso tra le pieghe di A Different Kind of Truth c’è nuova linfa, solida, efficace, rock, spudoratamente vanhaleniana; un album ruvido e diretto, hard e coinvolgente che non credo si possa scambiare per un tardivo e folle tentativo di mettere a segno il capolavoro. Nel 2012 ci sputereste sopra? Eddie è così in forma che fa venire voglia di saltare sulla sedia, si sente che ha finalmente lasciato alle spalle malanni e anni difficili ritrovando non solo la voglia di tornare a dispensare numeri con la sei corde ma anche e soprattutto il vecchio compagno di tempi felici, un Mr. Roth che non si risparmia e sputa fuori l’anima per riappropriarsi di quel posto che, non me ne vogliano i fans del grande Sammy Hagar, è semplicemente suo per diritto divino! Per chi scrive questo disco è il vecchio zio d’America che dopo una vita torna a farci visita e come da tradizione non lo fa a mani vuote. L’ho aspettato a braccia aperte sulla soglia di casa, con inossidabile speranza, dal momento stesso in cui ho chiuso quel Ciao2001. Nel booklet Diamond Dave scrive “Thanks for the dream”: ecco, vorrei scolpire anche io questa gioia immensa con sole quattro parole ma non saprei come sintetizzare ventisette anni d’attesa. E poi non sono Diamond Dave! (Manuel Fiorelli)
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✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 22 Febbraio 2012