C’era una volta (?) in Francia (nella Francia occupata dai nazisti, però) la giovane Shosanna Dreyfus che assiste al massacro – ordinato dal colonnello SS Hans Landa – della propria famiglia nascosta nella casa del signor LaPadite. Fortunatamente riesce a fuggire a Parigi dove eredita e gestisce una sala cinematografica sotto il falso nome di Emmanuelle Mimieux. Nel frattempo alcuni soldati ebrei americani condannati per vari reati hanno formato il commando dei “Basterds”, guidato dal tenente Aldo Raine, con il quale riusciranno a infiltrasi nelle linee nemiche e a uccidere quanti più nazisti potranno privandoli dei loro scalpi. La climax culmina nell’operazione “Klino” di cui fa parte anche Shosanna e l’affascinante attrice tedesca, insospettabile spia degli alleati, Bridget von Hammersmark: mentre nella sala cinematografica si proietta un heroic di propaganda alla presenza dei più alti gerarchi nazisti (Hitler e Goebbels compresi), gli americani effettuano un attentato con il quale salta in aria il cinema e tutto lo stato maggiore delle SS. “Bastardi senza gloria” è un’opera che trabocca di cinefilerie che definiscono “tout court” i contorni di un’estetica improntata all’eclettismo e all’ibridazione: il format dichiaratamente ispiratore è il b-movie di Enzo G. Castellari (“Quel maledetto treno blindato”) che s’espande tumultuosamente nei rimandi aldrichiani di “Quella sporca dozzina” fin a saccheggiare quasi completamente il kolossal firmato da Edward Zwick, “Vento di passioni”, sin già nell’omofonia delle protagoniste femminili (Shosanna/Susannah), e (ri)comprendere la “Ninotchka” di Lubitsch, “Il sergente York” di Howard Hawks e “Sentieri Selvaggi” di John Ford (con la sequenza della fuga di Shosanna dalla casa/nascondiglio mentre il colonnello Landa apre la porta per spararle). Il citazionismo di Quentin Tarantino (questa volta più che mai) assume i connotati di un geniale pastiche che concentra in quasi tre ore di regia – invero non così sopra le righe come in altre occasioni – virtuosismi pop, violenza fumettistica, interminabili dialoghi, brillante ironia e, al contempo, distillato d’epos che compongono un delirante mosaico la cui essenza tautologica ed autoreferenziale, al pari di una stupefacente perizia tecnica, determina la totale frantumazione del “war-movie”. In più d’un secolo di cinema, infatti, il pubblico ha visto la nascita dei modelli narrativi propri del genere “bellico” (e dei suoi innumerevoli sotto-generi), la loro codifica e la loro messa in discussione, nessuno, però, prima di Tarantino, o al suo pari, è stato così scientificamente radicale nella demolizione di tutti gli schemi fin qui utilizzati. Ogni autore ha la propria guerra da raccontare e un modo per farlo: spettacolarizzando i conflitti o adoperando un tono moraleggiante, abbracciando incondizionatamente il pacifismo o l’aggressività, in un ventaglio di opzioni che può spaziare tra il mèlo, l’epica e, persino, la parodia. Tarantino, al contrario, sceglie di non scegliere un solo registro (stilistico ma anche emotivo) sparigliando in continuazione i codici di questo genere e segnando un punto di non ritorno. Infatti, novello demiurgo all’acme delle proprie possibilità immaginative ed espressive, ma sempre e comunque abitato dallo spirito ludico di un eterno fanciullo (non è in fondo “Bastardi senza gloria” la cupa fiaba western che Tarantino sogna da sempre di girare?) assunti a puro pretesto i tòpoi del commando movie, “crea” in piena libertà nuovi modelli: l’azione si distende in spaziati capitoli preceduti da titoli ma d’emblèe s’interrompe e, nel caso ad esempio della scena grand-guignolesca del bar, lascia il campo in maniera straniante a sequenze anarchicamente quasi autonome dal contesto – ancorchè foriere di ulteriori potenziali spin-offs filmici, documentaristici e/o televisivi – come se l’adolescente che “è” nell’autore (e nello spettatore) decidesse di prendersi una piccola pausa dalla visione per leggersi qualcosa oppure giocare un po’ a qualche videogames. “Politically incorrect” nei confronti della storia ma divertitamente beffardo, al regista pochissimo importano (e hanno importato all’uscita del film) le critiche sul latente revisionismo e sulla tendenza (neanche troppo occultata) a giustificare la carrellata di efferatezze mostrate: egli continua e probabilmente continuerà a lungo a nuotare nelle acque tumultuosamente confuse della cultura post-moderna di cui s’è nutrito e della quale costituisce uno degli esponenti più rappresentativi. “Bastardi senza gloria” è l’epitome della tarantinità che tutto livella e contamina, rinnovando linguaggi, contenuti e stili: la velocità e l’orizzontalità con cui s’esprime (anche quando sembra indugiare sulla lentezza) non può che frammentare la struttura narrativa, giustapporre simultaneamente materiali sub-culturalmente diversi, azzerare le gerarchie e i valori fino ad annullare le categorie temporali e, dunque, anche il senso stesso della storia. Ancor oggi, nonostante siano passati più o meno vent’anni dal suo avvento sulla scena cinematografica, non tutti hanno compreso appieno che l’azione demistificatoria di questo autore è una metafora del logorio di senso e del linguaggio contemporaneo: l’accellerazione sul nichilismo e sul grottesco, l’esasperazione del male e della violenza gratuiti operate da Tarantino determinano un relativismo del tutto complementare a quello della nostra epoca che svuotando di significato fino al nonsense le vicende, annulla i valori assoluti in favore dell’aleatorietà e dell’indeterminatezza. Fedele al dettato che fu della nouvelle vague secondo cui ciò che importa non è insegnare o riprodurre ma “narrare” (per immagini), “Bastardi senza gloria” si disinteressa, quindi, della verosimiglianza storica preferendo una menzogna ben organizzata (come diceva Truffaut) a partire da un montaggio che non riproduce in alcun modo il flusso della realtà. Consapevole dell’eterno insensato fluire dell’esistenza a Tarantino (e a noi con lui) non rimane altro, dunque, che il cinema: il luogo migliore dove esprimere ogni residuale umana volontà di potenza, riappropriarsi della vita e mettere al bando una volta per tutte le sue infime miserie. (Nicola Pice)
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