Leonard Cohen sta al cantautorato colto come John Lee Hooker sta a tutte le stagioni del Blues revival e Jimi Hendrix alla chitarra rock. È un punto di riferimento ineludibile per chiunque abbia in animo di amalgamare insieme musica e liriche, e il suo autunno poetico è stato preso a modello anche da schiere di adepti alt-country negli Usa come nel nord Europa. È da oltre quattro decenni il più importante e influente songwriter, addirittura più cristallino e carismatico di Dylan, con quella voce da basso profonda, cavernosa e toccante come poche, ma non solo: è anche poeta e scrittore, uno dei più grandi tra i contemporanei. Non molto tempo fa si è concesso un ritorno sulle scene in tour mondiale alla non più tenera età di 74 anni e le 84 date tenute hanno registrato dappertutto il “tutto esaurito”. Una dimensione genuina, quella dal vivo, per un artista per il quale il tempo sembra non passare mai, e si potrà comprendere cosa possa significare presentarsi sul palco alla sua età e non perdere un briciolo della propria luminosa grandezza. Così metabolizzati i fasti di una tournée trionfale – si trattava del suo ritorno sulle scene, dopo un’assenza durata quindici anni – Leonard si è dedicato alla preparazione di un nuovo album in studio (a otto anni da Dear Heather,), il dodicesimo, che, alla prova dei fatti, non è affatto peregrino definire uno dei più belli della sua discografia, all’altezza delle migliori cose incise negli anni Settanta. Inciso a 77 anni con l’estro, l’entusiasmo e l’ispirazione probabilmente trovati ‘on the road’ negli ultimissimi anni. Cohen – perlomeno per l’età, ma non solo per quella – guida la schiera dei grandi vecchi della canzone nordamericana, seguito da Bob Dylan e Neil Young che non hanno alcuna intenzione di abdicare. In più ci piace sottolineare come la produzione artistica di Cohen sia una delle più solide e cristalline dell’intero panorama musicale internazionale. Vi si colgono i frutti di un’esperienza di vita intensa permeata di spiritualità, i testi raccontano dei grandi temi di sempre, la vita e la morte, il sesso e i rapporti umani, con la consueta veste poetica, l’approccio intimista, mutuato dagli chansonnier francesi, e l’ironia di sempre. La sua voce, il crooning – baritonale e dai toni notturni – è addirittura migliorata, così piena di sfumature; le canzoni si vestono di tonalità calde e autunnali, a porgerci questo pugno di “vecchie idee”. “un pigro bastardo in giacca e cravatta”, così si descrive nell’iniziale ballata minimalista e gospel “Going Home” (”I love to speak with Leonard, he’s a sportsman and a shepherd, he’s a lazy bastard living in a suit“), e si definisce “straccivendolo del cuore”. Segue “Amen” (”Tell me again when the filth of the butcher/ Is washed in the blood of the lamb“), un lungo pezzo dark con il contrappunto di mandolino, archi e fiati, che ci rimanda per impostazione ad “Halleluja”; è quindi la volta della splendida “Show Me the Place” (”Show me the place/ where the word became a man…“), su un tappeto sonoro trasognante del pianoforte. “Darkness” (”I’ve got no future/ I know my days are few“), grintoso rock blues aperto da un magnifico intreccio di chitarre, è condotto nello stile riconoscibile del cantautore canadese, ed è uno dei brani più musicali dell’album: Leonard in questo caso è accompagnato dagli stessi musicisti che l’hanno assistito in tour negli ultimi anni. Poi la romantica “Crazy To Love You” (”I’m old and the mirrors don’t lie / but crazy has places to hide me / that are deeper than any goodbye“) con il supporto della chitarra acustica, mentre “Lullaby” è una delicata ninna nanna. A chiudere il disco “Different Sides”, perfetta canzone pop dalle sfumature old-fashioned. Tutto, intorno, funziona a meraviglia, dal coro delle Webb Sisters al controcanto di Jennifer Warnes, all’Hammond e agli archi, e al resto. Un disco sorprendentemente bello, ed è un incanto per il cuore e per la mente ritrovarsi in compagnia di un poeta così lucido nel muoversi tra memoria e consapevolezza, elegante, e dallo sguardo acuto e penetrante. (Luigi Lozzi)
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