C’è un pezzo, un vecchissimo pezzo dei Diaframma che si intitola Bananamoon. Non parla di un posto immaginario ma di uno dei luoghi simbolo della Firenze degli ultimi anni Settanta. Un locale aperto a Borgo Albizi in pieno delirio punk: il 3 marzo del 1977. La stessa sera della tragedia di Monte Serra. È lì che si crea la “scena” fiorentina. Nicola Vannini, Piero Pelù, Antonio Aiazzi, Federico Fiumani, Mirco Sassolini, Ghigo Renzulli, Checco Calamai, Ernesto De Pascale, Gianni Maroccolo, i fratelli Bigazzi, Paolo Favati, Marcello Michelotti, Rip Kirby, Alberto Pirelli, Stefano Gasparinetti Fuochi, Ringo De Palma, Renzo Franchi, Andrea Chimenti, i fratelli Cicchi, Roberto Terzani, Maurizio Fasolo, Francesco Magnelli e Simone Santini si scontrano spesso all’ingresso del locale. Vanno e vengono. Col cervello pieno di idee. Il punk ha innescato la miccia ma sono soprattutto le icone del dopo e del pre-punk a essere interiorizzate, a tracciare il “solco” artistico. Ian Curtis, David Bowie, Iggy Pop, l’elettronica tedesca, le avanguardie di San Francisco, la new wave anglosassone, gli Psychedelic Furs, i Throbbling Gristle, gli Ultravox. Bananamoon, il pezzo, finisce dentro Siberia dei Diaframma ma con un titolo diverso: diventa Amsterdam. Il passaggio ufficiale di consegne del baluardo del rock italiano da Bologna a Firenze avviene in quel preciso momento. Siberia esce per una nuova etichetta che decide di investire tutto sul nuovo rock italiano, per di più cantato in italiano: si chiama Immortal Record Alliance ma tutti la ricorderanno come I.R.A. Nei loro studi piovono band da tutto lo stivale, da Milano a Catania. Ma sono soprattutto due band locali a spartirsi le attenzioni di pubblico e critica: i Litfiba e i Diaframma. Evocativi e mediterranei i primi, glaciali ed esistenzialisti i secondi. Viaggiano assieme, condividendo palchi, situazioni, studi ed etichette ma i Diaframma arrivano all’album di debutto un pelo prima della band di Piero e Ghigo. Questo leggero anticipo ne fa il primo vero manifesto del rock cantato in italiano profetizzato da Alberto Castelli e le aspettative non vengono tradite. Il taglio scelto dalla band toscana è quello della new wave sepolcrale inglese: Banshees, Cure e Joy Division in primis ovviamente rivestiti da un ermetismo crepuscolare e sottilmente romantico ben interpretato dalla voce desolata di Miro Sassolini. Nevica sul Lungarno. Quell’anno più che negli anni che li hanno preceduti. E i Diaframma ne cantano la magia. Siberia e Neogrigio lasciano subito il segno. Chitarra minimale come piccole, ripetute orme sulla neve, modulata sul flanger, basso che tratteggia linee melodiche come da manuale Joy Division e batteria elettronica secca come ossa di seppia, la tastiera di Ernesto De Pascale che nello sfondo crea altre piccole macchie di grigio e un sax a planare su queste distese di ghiaccio siberiane. La voce di Sassolini che sembra davvero essersi smarrita nella tundra. Neogrigio è più serrata sin dall’inizio. Come fosse la The Hanging Garden del disco con quell’andamento a rullo, come una corsa dentro un labirinto. Altro bellissimo pezzo è DeLorenzo con un basso rotondeggiante e la solita ripetitiva trama di chitarra che contribuisce a dare questo clima di desolante alienazione al disco. Specchi d’acqua torna alle accelerazioni di Neogrigio ma con una scelta ossessiva quasi maniacale, tratteggiata con una frase di chitarra ripetuta fino al tormento. Desiderio del nulla è il pezzo più opaco del disco, appesantito da quella claustrofobia gotica che verrà poi sviluppata da una band come Carillon Del Dolore e che i Diaframma invece abbandoneranno già dal disco successivo, aprendo le finestre al dolore, lasciandolo venire fuori e preparando i solchi lungo i quali possa colare in tanti piccoli rivoli di sofferenza. (Franco Dimauro)
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