Un tempo me ne fregavo di tutto. Non sapevo cos’era lo spread (e non lo so ancora), i grassi idrogenati, le metastasi, gli amidi modificati, il digitale terrestre, le lampade a basso consumo, gli accordi sospesi, gli allergeni, la pensione integrativa, l’ovulazione, la prostatite, il push-up, la fase down. Mi bastava poco per essere felice: pane e nutella, i giornaletti di Sukia e una cassetta dei Wall of Voodoo. E un Gucciniano “a culo tutto il resto” non me lo toglieva nessuno. Con gli anni mi sono diseducato alla felicità ed è cresciuta l’invidia per voi che stretti nelle vostre giacche di sartoria e soffocati dai nodi delle vostre cravatte salite pieni di accessori sulle vostre SUV lucide come le gambe delle vostre mogli dopo la depilazione. Notebook, bluetooth, tom-tom, iPad, guanti di lattice e boccetta di Amuchina e via, verso l’approdo sereno del vostro ufficio lindo e profumato, pronti a lucidare qualche sedere o a farvi leccare il vostro. Vi invidio, tribù di terrestri. Vi guardo dal buco della mia parete di tufo e vi ammiro. Poi però mi arriva un disco come Lost Weekend e torno a sbattermene del mondo. Quello vostro, intendo. Mi siedo sul mio toro meccanico e giro per la pampa messicana cantando Mexican Radio, divento un agente dei servizi segreti in fuga mente ascolto Red Light, mi sistemo il bolo e i cinturoni mentre passa Far Side of Crazy, provo a disegnare un cuore che non sanguina mentre incalza Crack the bell, sistemo i miei fagioli in scatola nelle bisacce intonando Call of the west, preparo il mio barbecue sotto la pioggia di microchip di Factory, fumo il mio peyote alle porte del deserto del Mojave spinto dai cingoli elettronici di Big City, lucido i miei speroni dopo aver attraversato la palude di Ring of Fire e non vi invidio più quando volo sull’Interstate 15. Vi guardo come un bonzo dalla sua pagoda e rido di voi. E tengo il conto dei capelli che ho perso, come un bambino che ha paura della carie. (Franco Dimauro)
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