Settimo album in studio – esce prima in Europa che non negli Usa – per Rufus Wainwright, rampollo di una famiglia nella quale la musica è (ed è stata) al centro degli interessi di molti dei suoi componenti. Il songwriter si ritrova in un punto nodale della sua carriera, un momento in cui il pubblico degli appassionati lo adora e accetta di buon grado qualsiasi nuova proposta dell’artista. E ce ne sono di argomenti per motivare il suo eclettismo. Sovente ha intrattenuto le platee con concerti eccessivi, sopra le righe, (anche) sul filo dell’avanspettacolo, altre volte invece facendosi serioso e più sperimentale. È risaputa la sua passione per Judy Garland cui ha dedicato un tributo in chiave musical e ultimamente si è impegnato nella messa in scena di un’opera. Due eventi hanno segnato in modo contrapposto gli ultimi due anni di Rufus: la nascita della figlia Viva e la morte della madre, una delle sorelle McGarrigle, Kate, che si era separata da papà Loudon quando lui era ancora bimbo. Nella naturale elaborazione del lutto da una parte e della gioia dall’altra, attraverso la musica, ha prevalso quest’ultima. Il nuovo disco è una raccolta di canzoni pop & dance e groove R&B come mai erano apparse nel suo repertorio, brani che “suonano” ideali per un dance floor o per una passeggiata spensierata senza meta in auto (ed un pronunciato appeal radiofonico), un qualcosa che si spinga lontano dalle preoccupazioni ossessionanti dei tempi cupi che stiamo vivendo. Registrato a New York (negli studi Dunham Sound a Brooklyn e Sear Sound di Manhattan), qualcuno ha avvicinato questo disco alla bellezza in parte incompresa dell’Honky Chateau di Elton John, vi si leggono anche altre influenze riconducibili a David Bowie e Queen, a noi personalmente sembra un James Taylor con più leggerezza, senza il fardello di “vissuto” del celebre autore, munito di tanta ironia e un’accattivante seduttività. Qualcuno ha messo all’indice il lavoro produttivo di Mark Ronson, accusandolo di aver trasformato Rufus in qualcosa di prossimo a Amy Winehouse, in realtà il sound messo in piedi ha toni low-key anni ’70. Avvio brioso con la title-track (ne circola un delizioso video traino che vede protagonista Helena Bonham Carter nelle vesti di una seducente bibliotecaria; bella, glamour e divertente come l’ha definita l’amico Rufus), una canzone d’altri tempi con quel giro di chitarra accattivante nel mezzo. Stessi toni low-key anni ’70 che accompagnano “Jericho” e “Rashida” mentre con “Barbara” ed alcuni dei brani seguenti il look sonoro si fa più introspettivo. “Welcome to the Ball” è stata scritta anni fa per un possibile/ipotetico musical di Broadway, “Montauk” fa riferimento alla casa di New York dove ha vissuto. Lunga e accorata e in chiusura “Candles“, omaggio a mamma Kate. Brani in cui Rufus offre l’ennesima prova del suo talento, in virtù di una scrittura lineare, ma mai banale, e un’interpretazione vocale che lo pone al livello dei migliori country-pop singer americani e talvolta (quando i toni sono da coroner old-style) sembra pure riportarlo ai tempi del Rat Pack di Sinatra & Co. Tra gli ospiti la sorella Martha Wainwright, Sean Lennon, Thomas “Doveman” Bartlett, il batterista dei primi Razorlight, Andy Burrows, il chitarrista Nels Cline, membro dei Dap-Kings, Nick Zinner chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs, ma anche Wilco e Andrew Wyatt dei Miike Snow. (Luigi Lozzi)
Se vuoi segnalarci un errore o dirci qualcosa, scrivici a musicletter@gmail.com. Se invece ti piace quello che facciamo, clicca qui e supportaci con una piccola donazione via PayPal, oppure acquista su Amazon il nostro utile quaderno degli appunti o qualsiasi altro prodotto. Infine, puoi aquistare un qualsiasi biglietto su TicketOne e anche seguirci su Telegram. Grazie
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 30 Aprile 2012