Un tranquillo 50enne, dopo aver strangolato una collegiale, ne squarta il cadavere e a sua volta si taglia la gola con lo stesso bisturi; una casalinga è in grado di partorire un esercito di deformi nani assassini grazie ad una terapia medica sperimentale; un mutante telepate fa esplodere le teste altrui con il potere della sua mente; due gemelli ginecologi inventano un bloody-game per amore di una donna i cui organi sessuali non possono esistere in natura; un improbabile network televisivo trasmette filmati di torture e morte la cui visione produce effetti devastanti sull’organismo umano; uno scrittore tossico entra in contatto con un universo mostruoso che nessuna droga al mondo sarebbe in grado di creare… Welcome to the Horrordome: lasciate ogni speranza voi ch’entrate, amici miei, il diavolo veste David Cronenberg. L’uomo che ha osato rappresentare l’inosabile sdoganando il cinema di genere in chiave autoriale, influenzando una intera generazione di giovani cineasti. Dagli esordi low-budget – comunque straordinari – alle sofisticate goticherie di “Spider” non è mai stato banale e scontato: semmai sempre più abrasivo e duro in un panopticon di scambi, travestimenti, fusioni e metamorfosi materiche dove l’orrore sembra “accadere” imprevedibilmente quanto con improvvisa violenza – seguendo strade indirette e metaforiche – dopo essersi annidato in forma latente all’interno dell’individuo in seguito all’inoculazione di virus e parassiti a scopo terapeutico o a causa di aberranti terapie psichiatriche oppure a causa di videoallucinazioni mentali dovute a esposizione alla realtà virtuale dei media. L’indagine cronenberghiana negli ultimi anni s’è spostata dalla mutazione grandguignolesca di un’umanità vittima di un deliro tecnologico irreversibile e invasa, pertanto, da una progressiva contaminazione tra l’organico e l’inorganico, tra il naturale e l’artificiale, all’esame della doppiezza dell’anima stessa in bilico tra normalità impossibile e violenza incontrollata. “A history of violence” – in onda stasera su rai 4 alle 21,10 – è la rappresentazione di un mostro che finge di essere…umano. Tom Stall, un anonimo gestore di un anonimo ristorante di un anonimo paesino della provincia americana (Millbrook, Indiana) vede riemergere – casualmente quanto ferocemente – un passato di violenze efferate rinunciando in maniera definitiva ad un presente che s’illudeva essere quello di coscienzioso lavoratore e di marito e padre affettuoso. Infatti, dopo aver ucciso due malviventi che avevano tentato una rapina, diventa una specie di eroe locale ma attira anche l’attenzione di alcuni esponenti della mafia irlandese di Filadelfia che cercheranno di eliminarlo sostenendo che in realtà il suo vero nome è Joey Cusack, un affiliato che li aveva traditi molti anni prima. Cronenberg (che trae il soggetto del film dalla graphic novel scritta da John Wagner e illustrata da Vince Locke – “Una storia violenta”) descrive il riflesso del male e mette in scena la parte oscura dell’uomo che prende il sopravvento, liberando i suoi istinti più deleteri in una spirale di feroce violenza. È innegabile: in ognuno di noi sono nascosti pensieri morbosi e inconfessabili, fantasie e sentimenti sgradevoli, sepolti nella nostra coscienza ‘sì da risultare impercettibili, negati e cancellati agli altri come fossero brutti sogni che si dileguano alle luci dell’alba…Eppure essi sono sempre presenti, ci seguono ogni momento. È l’insoddisfatto desiderio che si manifesta sul nostro volto ogni volta che ci guardiamo allo specchio: il desiderio d’essere “altro” da noi, il desiderio di vivere una vita diversa, di scatenare e vivere le nostre pulsioni in assoluta libertà. Ma il desiderio insoddisfatto può tramutarsi in angoscia e terrore: il terrore che la faticosa ricerca di un’identità stabile ci venga strappata con forza può scatenare una risposta violenta e feroce…da animali feriti. Il contrasto tra essere e dover essere, la paura, i meccanismi inconsci che generano i conflitti e la conseguente violenza sono il sostrato fondante di questo film che è rivestito narrativamente da un plot che sembra thriller, che procede, però, come fosse un western spettrale e che si rivela, alla fine, un noir proteso alla rappresentazione, ancora una volta, della doppiezza e della mutazione – in questo caso solo psicologica – del protagonista e, dunque, alla più “universale” riflessione sul senso stesso dell’identità umana e sull’impossibile univocità dei suoi atti. Severo e anti-spettacolare, l’autore mette in scena una violenza brutalmente esplicita ma sideralmente lontana da qualsiasi forma di morboso auto-compiacimento dilatando, al contrario, le emozioni e le reazioni con l’impiego di intensi primi piani che vengono magnificati dalla fotografia geometrizzante ed artificiale di Peter Suschitzky che volutamente s’ispira all’impressionismo sui generis di Edward Hopper. Nonostante nell’opera emerga il malinconico rimpianto per gli anni ‘50 e ‘60 del novecento – metafora dello struggimento per la dissoluzione dell’innocenza infantile e per la fine di un’epoca “aurea” – Cronenberg si rivela gelido come la fredda lama di un chirurgo che seziona la mente umana e non ha pietà alcuna dello spettatore sprofondandolo in una pozza di angoscia con uno dei finali più ambigui ed inquietanti della sua lunga produzione. Al confronto i vecchi horror erano degli innocenti spettacoli d’evasione. (Nicola Pice)
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