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Live review: Bruce Springsteen a Firenze

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Mi ci è voluto qualche giorno per metabolizzare al meglio l’esibizione di Bruce Springsteen del 10 giugno scorso allo stadio Artemio Franchi di Firenze. Confesso d’essere stato uno di quelli che l’avevano dato per ‘bollito’; vuoi per l’inesorabile avanzare degli anni, vuoi perché una palpabile sensazione di ‘giurassico’ accompagna da tempo i tentativi di fermare il tempo di tanti antichi eroi del rock che proditoriamente, fors’anche ‘pretestuosamente’, si accalcano sul palco per provare a riaccendere la fiammella di una gloria ormai bella che andata. Quella delle ‘reunion’ delle band dei Settanta e Ottanta sembra essere da tempo una pratica assai affermata, ma guardiamoci negli occhi: lo spirito, il vigore, le ragioni socio-politiche, il coinvolgimento d’un tempo non sono più ripetibili, sono oggi paradossali. I Rolling Stones, che non si sono mai sciolti, più che il rock portano in giro per il mondo il loro ‘brand’ multimilionario, lo stesso fanno ancora (con tristi risultati) i Jethro Tull, da qualche parte (anche in Italia quest’estate) si aggira il fantasma dei Doors e gli Who, quando hanno provato a rimettersi in pista, sono sembrati la pallida parodia dello splendore d’un tempo. Senza andare oltre nell’elencazione, che ci condurrebbe troppo fuori dall’argomento, eccomi allora ritornare al Boss e a quel certo scetticismo che m’accompagnava; vuoi – forse – perché ad invecchiare invece sono proprio io. Sono stato un buon fan di Springsteen negli anni Ottanta, trascinato dalla sua straordinaria energia ‘Live’, convinto della indiscussa bontà del suo verbo, ma senza indossare i paraocchi della fede ‘tout-court’, e pur critico – mi piace pensare che i miei giudizi siano il frutto di una disamina sapiente e non ‘devota’ – quando, in qualche frangente, ha smarrito quella purezza che l’ha sempre contraddistinto (vedi ad esempio: un ‘prima’, con una produzione discografica assai parca fino all’85, e poi d’improvviso rigogliosa e per molti versi esagerata nei decenni successivi). L’amico Ermanno Labianca – uno dei massimi conoscitori dell’arte del Boss – è il capofila di una schiera di strenui ed appassionati ‘springsteeniani’ che da anni lo seguono spesso e dovunque. Al confronto dei quali i (miei) quindici concerti di Bruce cui ho assistito a partire dall’81, Zurigo, e passando per Dublino nell’85, un paio di volte a Newcastle lo stesso anno, l’esordio italiano a Milano, un paio a Londra e numerose altre volte tra Roma e il resto della penisola (l’ultima volta è stata più di dieci anni fa nei pressi di Como, al chiuso di un Palasport, e non fu un granché perché il Boss ha bisogno dello spazio aperto di uno stadio per esprimere il meglio di sè) -, sono ben poca cosa. Ho pensato che con l’avanzare degli anni, e in una età in cui molti vanno in pensione, la dimensione che poteva permettere a Bruce di continuare a fare musica fino a 90 anni fosse quella più intimista da storyteller acustico e che invece rimettere ancora in piedi la E-Street Band fosse un azzardo anacronistico, alla luce anche dei pezzi che sono andati persi (Danny Federici nel 2008, Clarence Clemons lo scorso anno) strada facendo. Sono felice, davvero felice, d’essermi sbagliato. Bruce non ha nulla di giurassico, ha ancora intatta – come trent’anni fa – la capacità di coinvolgere il suo pubblico e di entrare in un simbiotico rapporto ‘do-ut-des’ con esso. A quasi 63 anni (li compirà il prossimo settembre) è ancora in forma strepitosa, capace di tenere il palco come nessuno è in grado di fare tra i suoi coetanei e pure tra i tanti che sono assai più giovani di lui; per intensità, durata dell’impegno (3 ore e mezzo senza interruzioni), comunicativa, credibilità umana. Sono andato a Firenze perché ci tenevo che i miei figli (Francesca 16 anni, e Valerio, 13) avessero l’opportunità d’essere presenti ad una performance del Boss; scherzando dicevo loro da qualche tempo che, dopo aver assistito ad un suo concerto – e fatta la tara delle mie perplessità -, “la-loro-vita-sarebbe-cambiata-da-così-a-così”, accompagnando le parole con il gesto della mano con il palmo prima rivolto in basso e subito dopo in alto. Quello che colpisce nell’attesa del concerto è vedere un pubblico eterogeneo dai 18 ai 70 anni messo d’accordo dal sound inesauribile di Springsteen. Un cartello apparso tra la platea di San Siro recitava “Last week arrived the Pope, next week will come Madonna, but God is here… Now!”: bellissimo! 30 canzoni per complessive 3 ore e mezza di concerto per questa tappa fiorentina del ‘Wrecking Ball Tour’. Il nuovo disco è un album che canta la nuova depressione americana ed è una delle cose migliori incise da Bruce da molti anni a questa parte. ‘One-two-three-four’ ed ogni brano è una nuova debordante ‘experience’ che miscela gioia, passione, rabbia e impegno. Un monito per chi leggerà queste note e non ha mai visto Bruce dal vivo, ascoltandolo solamente su disco: assistere ad un suo concerto può davvero rappresentare un momento che non scorderete mai. La pioggia non lo ha spaventato, è sceso innumerevoli volta in mezzo alla sua gente – il ‘suo’ popolo del rock fradicio d’acqua ma convinto che il rito di comunione con Bruce andasse a maggior ragione consumato in quel modo – volgendo lo sguardo verso l’alto ed urlando “Come on!” in segno di sfida. Pioggia che si è rovesciata sul pubblico – prima leggera, poi via via più intensa – dall’inizio alla fine del concerto, ed oltre. E più pioveva, più Bruce sentiva l’esigenza di scendere tra i fan a condividere il disagio meteorologico ma anche a stringere con questi un simbolico ‘patto di sangue’, e lui non si risparmia, mai! Perché c’era consapevolezza e felicità da parte dei 45mila spettatori di presiedere ad un altro evento rituale, ma irripetibile e memorabile nella sua singolarità. È stato proprio questo aspetto a dare al concerto un significante che va anche oltre i contenuti musicali ed artistici. In avvio “Badlands” e “No Surrender”, un’accoppiata di grande efficacia in un ‘uno-due’ che lascia subito senza respiro; successivamente viene dato ampio spazio al nuovo album, “Wrecking Ball”, che è il suo migliore da molti anni a questa parte, e dal vivo fanno bella figura pezzi come “We Take Care Of Our Own”, “Jack of All Trades” e “Land of Hope and Dreams” che Bruce e la sua band rendono nel migliore e più coinvolgenti dei modi. Chi è più lontano dal palco trova conforto nei due maxi-schermi, posti ai lati del gigantesco palco, che permettono di cogliere tutte le sfumature della performance del Boss, perfino le sue smorfie, il suo palpabile e contagioso entusiasmo. Bruce, il cantore degli ‘umili’, ha parole (dette in italiano leggendole da fogli distesi ai suoi piedi) di conforto per chi (la ‘working class’) in questi tempi grami patisce più d’altri la crisi economica e per chi invece a questa aggiunge anche gli stenti del dopo-terremoto. «I tempi sono stati molto duri – dice -, la gente ha perso il lavoro e la casa. So che anche qui è stato durissimo e i recenti terremoti hanno contribuito alla tragedia. Questa è una canzone per tutti quelli che stanno lottando», ed attacca “Jack Of All Trades”. Diverse le chicche proposte perché – come sanno anche i sassi – Springsteen non è uso ripetere sempre la stessa scaletta nel corso di un tour. “Be True” risale ai tempi di “Darkness On the Edge Of Town” pur non comparendo in quell’album e viene recuperato pure uno dei brani storici più rari, “Backstreets”, c’è un ‘Medley’ di canzoni soul con la sezione fiati e i coristi che donano una virata decisa verso atmosfere black & gospel, poi diverse cover quali “Trapped” di Jimmy Cliff, omaggi ai Rolling Stones, Elvis Presley, Beatles e Creedence Clearwater Revival con “Honky Tonk Women” (che emerge sull’introduzione di “Darlington County”), “Burning Love” che Bruce concede su richiesta del pubblico (strappa dalle mani dei fan tra le prime file un grosso cartello che indica il pezzo e lo pone sul palco ben visibile per i suoi musicisti), “Twist And Shout” entusiasmante come tutte le volte che Bruce ha voluto eseguirla in chiusura dei suoi show, “Who’ll Stop The Rain?”, mai così significativa in questa occasione. Ed ovviamente i magnifici standard del suo repertorio (da “The River” a “Working On the Highway”, da “Born In the U.S.A.” a “Born to Run” a “Hungry Heart”, da “Prove It All Night“ a “Dancing in the Dark”), alle non meno pregnanti “Seven Nights to Rock”, “My City of Ruins”, “The Rising” e “Waitin’ On A Sunny Day”, durante la quale Bruce cede il microfono ad un bambino fatto salire sul palco che canta le parole del ritornello e poi dà spazio alla E-Street Band. A Jake Clemons, nipote di Clarence, spettano i contributi di sax che un tempo erano patrimonio di Big Man, ed il giovane sa farsi valere – un buon investimento per il futuro -, perché riesce a dare continuità al lavoro dello zio, pur senza averne lo stesso carisma perché Clarence, con la sua mole, ha sempre costituito pure una figura protettiva nei confronti di Bruce. Ad uno ad uno vengono presentati i componenti della E-Street Band, Roy Bittan (piano), Nils Lofgren (chitarra), Garry Tallent (basso), Steven Van Zandt (chitarra), Max Weinberg (battiera), Jake Clemons, erede di Big Man, assieme ai musicisti aggiunti (Soozie Tyrell, violino e chitarre, Charles Giordano, tastiere, Clark Gayton, fiati, Eddie Manion, sassofono, Curt Ramm, tromba, Barry Danielian, tromba e Everett Bradley, percussioni), all’E-Street Choir (Curtis King, Cindy Mizelle e Michelle Moore). Durante l’esecuzione di “Tenth Avenue Freeze Out” si celebra il tributo all’amico Clarence Clemons accompagnato – nel momento in cui il gruppo interrompe la musica e sullo schermo scorrono le immagini del compianto Big Man – da un lungo, affettuoso e caloroso applauso da parte di tutti i presenti. Felice di essermi ricreduto: Bruce Springsteen continua a rappresentare l’essenza più pura e genuina del Rock ed il suo ‘fuoco sacro’ continua ad alimentarsi; è lui l’indiscusso re del rock’n’roll, ha stessa carica e la stessa energia che profondeva trent’anni fa. God Save the Boss! (Luigi Lozzi)

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