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(Ri)visti in TV: Vite Vendute di Henri-Georges Clouzot

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Per qualche misteriosa, fortunata coincidenza astrale (?!) talvolta coloro che passano la vita a mostrare il disprezzo per le vicissitudini umane e, dunque, l’intrinseca assurdità delle vicende stesse, sono baciati da un successo che arride in maniera così folgorante da indurci a pensare che tanto apprezzamento nei loro confronti sia in fondo una tarda forma di risarcimento morale da parte di tutti coloro che per lunghissimo tempo li hanno criticati ed emarginati. L’ostracismo recensitorio decretato per lunghi anni al regista francese Henri-Georges Clouzot, considerato un rappresentante del “noir” più duro e crudele, sembrò magicamente terminare con il successo straordinario di “Vite vendute” nel 1953. Se già con “Il corvo” e “Legittima difesa” questo “autore maledetto” aveva mostrato quanto fosse insanabile la sua misantropia, in questo film accentua il registro cupo, mettendo in scena i rifiuti di un’umanità incarognita e senza possibilità alcuna di riscatto. Quali i motivi, dunque, di un consenso critico universale che fa vincere all’opera la palma d’oro a Cannes, l’orso d’oro a Berlino e il BAFTA della British Academy? Da un lato c’è il desiderio di sostenere la produzione di un autore ostracizzato e vittima di epurazioni, dall’altro la forza straordinaria del film stesso: la tremenda avventura di quattro disperati (ex-gangster e mercenari) provenienti dall’Europa e dall’America che sono alle prese con loschi traffici in un povero villaggio guatemalteco. Clouzot introduce la storia con un lunghissimo prologo che serve non solo a creare l’atmosfera della tragedia imminente ma anche a descrivere il disfacimento morale e la desolazione che regna assoluta in quelle terre poverissime. Tutto scorre veloce ed incalzante, fissato mirabilmente dal bianco e nero greve dell’obiettivo della fotografia sensibile di Armand Thirard e avvolto dall’efficace musica della colonna sonora di Georges Auric. Il tono della narrazione adotta i ritmi sospensivi del thriller non risparmiando, però, nulla del fatalismo sarcastico a cui si ispira tutta la vicenda (Mario, infatti, pagherà con la vita la colpa del proprio cinismo disperato). L’opera assume le sembianze del capolavoro perché tutto è perfetto nella sua esemplare, irriducibile esasperazione: la recitazione nervosa, la tensione narrativa, una malinconia strisciante e…su tutto “il clima Clouzot”, quell’acredine spirituale – la misantropia di cui si parlava – sorretta da una spettacolare padronanza della tecnica cinematografica. Un talento purissimo, quello del regista francese, che ne ha consolidato la fama di autore bizzarro: un folletto spietato e anarchico che ha saputo essere artista sincero e senza mezze misure. E di cui si parla oggi troppo poco nonostante qualche sfortunato tentativo di remake hollywoodiano e nonostante qualche sporadico passaggio televisivo ad impossibili ore notturne. (Nicola Pice)

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