Nei plumbei anni post-1975, pur rimanendo viva come “istituzione cinematografica”, la commedia all’italiana conosce un momento di grave impasse triste presagio alla conclamata crisi degli anni ottanta. Il genere italiano per eccellenza aveva fondato la sua forza sulla capacità di rendere popolari in chiave burlesca tabù inavvicinabili per il cinema d’autore, sempre alle prese con la censura. La nascita e l’ascesa di questo tipo di cinema leggero, garbatamente comico, non a caso era coincisa col declino del neorealismo ed era stata determinata dalla constatazione da parte di un’intera generazione di produttori, cineasti, assortiti uomini di cinema che il pubblico “italiano” accettasse di discutere di temi “seri” – fors’anche per motivazioni di ordine antropologico e/o storico – soltanto a patto di poterci ridere su. In quegli anni le utopie sessantottine sembravano definitivamente alle spalle, evidenti, al contrario, la disgregazione del tessuto sociale divorato dal cancro di mille conflitti, di mille problemi, l’impossibilità di una reconductio ad unum, una spaventosa crisi economica e, soprattutto, lo spettro del terrorismo. Il paese dei tarallucci e vino che per secoli aveva manifestato il proprio dissenso con l’innocua arma del pernacchio, dello sberleffo, stava per tuffarsi in un bagno di sangue generato da feroci estremismi contrapposti. Il disagio e, soprattutto, l’incapacità della commedia cinematografica italiana di descrivere la realtà era direttamente proporzionale allo sgomento di un intero paese: la società cambiava, dunque, in un modo così repentino e violento che sembrava suggerire un commento in chiave drammatica più che comica. “Signore e signori, buonanotte” (1976) è un film che, all’apparenza nell’alveo del glorioso genere che fu, cercò di distaccarsi dalla tradizione ri-cercando un aggancio meno convenzionale mescolando il bozzettismo macchiettistico alla ferocia della satira, il mestiere dei propri collaudati interpreti alla frenesia iper-realista, la finezza dell’ironia al grottesco volutamente becero e scorretto…’sì che “la commedia all’italiana”, continuando a cavalcare la tigre su cui era salita tanti anni addietro, arrivasse alle conseguenze logiche delle sue premesse e raccontasse delle storie in sintonia con i tempi: storie confuse perché figlie di una realtà complessa ed indecifrabile ma sempre e comunque, ormai, irrimediabilmente tristi, specchio di un’Italia opaca ed infelice. Un vero e proprio film collettivo questo – scritto tra gli altri da Age, Benvenuti, De Bernardi, Maccari, Pirro, Scarpelli, Comencini, Loy, Magni, Monicelli, Scola, Tognazzi, Villaggio – affidato alla regia di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola che strutturarono l’opera in episodi – non immediatamente riconducibili alla cifra stilistica di ciascun autore – che raccontano la distribuzione delle news di un notiziario di un ipotetico terzo canale televisivo. Dodici diverse situazioni – più alcuni brevissimi inserti – che rappresentano un campionario di mostruosità umane e sociali metafora, neanche troppo oscura, della corruzione, del degrado, delle ingiustizie, dei paradossi di un paese che, finito da tempo il miracolo economico, si scopriva circondato dalle macerie generate dalla propria colpevole incapacità “mediterranea” di aver saputo per tempo porre le basi per una società più equa e dignitosa ma anche denuncia dei pericoli di un’informazione neo-televisiva spettacolarizzata, auto-referenziale, piaciona e – in definitiva – insensata. Girato in uno stile frammentario, a tratti incredibilmente truffautiano (il magnifico, sporco, tremolante, terribile “Sinite parvulos”, probabilmente di Loy?), surrealista ne “Il disgraziometro”, quiz televisivo in cui vince il più sfigato condotto da un crudele Paolo Villaggio, fintamente cine-veritè nel patetico e divertente, al contempo, “Il personaggio del giorno”, rappresentazione delle giornate di un pensionato milanese interpretato da un “grandioso” Ugo Tognazzi, puro detournement godardiano nell’inchiesta sul lavoro minorile, sornione e anti-clericale ne il “Santo Soglio” , beffardo con “La cerimonia delle cariatidi” inaugurazione dell’anno (pre)giudiziario danzato sulle note del grottesco imperituro anthem napoletano funiculì-funiculà. Testimonianza validissima, seppur alterata, di un’epoca amara e della decadenza (irreversibile? Sembrerebbe di sì dopo trent’anni…) di un’Italia senza capo nè coda ma anche sepolcrale impossibilità, dati i tempi, di fare “ancora” un’altra commedia di genere per un paese che dopo tutti questi anni aspetta chi, passata quella splendida generazione d’autori, sappia farla ridere ma anche aprirle gli occhi: ma questo è un altro discorso… (Nicola Pice)
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