La realtà, questo film sempre più in bianco e nero. Profezie catastrofiste, apocalissi imminenti, desolazione fisica ed emotiva. Città che divengono sempre di più alveari mostruosi, dove il piccolo uomo comune si sente schiacciato, oppresso, dove l’oscurità invade la coscienza, anche in pieno giorno. Dove il freddo è quello dei sentimenti, dove i notiziari urlano sempre nuovi ma familiari abomini, dove il pavimento sotto i piedi sembra sempre più spesso mancare. L’apocalisse, a grandi passi, arriva. Cosa c’è di meglio del doom, per cantarne la venuta? Fanculo i trend, fanculo le fighettate che non hanno niente di estremo se non la confezione, che ammiccano urlanti dagli scaffali dei negozi dischi ormai deserti. Per chi? Per cosa? Il freddo, il dolore, l’oppressione emotiva, la fine della realtà come la conosciamo, il doom. I nostri Sei Cavalieri è dal doom d’Albione che partono, è di queste cose che cantano. Cantano con la classe cristallina dei cavalli di razza, con la consapevolezza dei mezzi propria di chi conosce la materia, con la fragilità che solo i sentimenti vissuti sulla pelle, sublimati e mirabilmente riesposti sa dare. Doom, certo. Gli Anathema degli inizi, i My Dying Bride li sentirete, state tranquilli. Ma sentirete tanto dei Foreshadowing, ve lo assicuro. Cosa c’è da inventare, direte. Forse niente: storia vecchia, che si tende a dimenticare davanti alla next big thing ma a rivangare al cospetto di dischi come questo, che, stilisticamente, hanno le idee chiare. Ma le cose vanno anche declinate, e la differenza sta tutta lì. È li che i Foreshadowing danno lo strappo decisivo, mentre la boria della sopravvalutazione avviluppa il songwriting di band più conosciute e affermate. Il percorso, iniziato con Days of Nothing e proseguito con il superbo Oionos si arricchisce e si completa con questo Second World al cospetto del quale, vi assicuro, non ci si può che abbandonare. A fronte di un songwriting sempre di livello altissimo che in Oionos aveva sicuramente aspetti più “chiusi” e opprimenti, questo Second World fa respirare le tracce di suggestioni inedite, rendendo l’insieme più dinamico e completo e, soprattutto, evitando i piccoli passaggi a vuoto che avevano sempre leggermente sporcato la perfezione stilistica dei dischi precedenti. Inutile lodare ancora la voce, sempre perfetta, di Marco Benevento, o la produzione dinamica che valorizza ogni singolo passaggio sottolineando i differenti chiaroscuri dell’opera, o una scrittura matura che si permette credibilissime digressioni come la superba, barocca e semiacustica Colonies o la melodia quasi eighties della commovente Ground Zero (forse i pezzi migliori) senza perdere un’oncia di qualità, accanto a passaggi doom da antologia come l’opener Havoc, la superlativa Outcast o l’oppressione sulfurea della title track e di Aftermaths. Album perfetto. (Valerio Granieri)
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