Arancia Meccanica è “tautologicamente” un perfetto meccanismo cinematografico seppur bizzarro e, dunque, coerente con l’espressione “cockney” del libro di Burgess che ispirò Stanley Kubrick: “strano come un’arancia meccanica”. Un’opera (stilisticamente) nata nel futuro che ha rivoluzionato il cinema, la storia del costume, l’uso della musica applicata alle immagini, la recitazione. Come ha sostenuto Enrico Ghezzi in un celeberrimo castoro: da vedere, da sentire, da studiare, da conservare… e trattandosi d’un film di Kubrick non avrebbe potuto essere altrimenti: il regista, infatti, ha sempre piegato ogni spunto narrativo alla sua dimensione di autore inflessibile e rigoroso ma, a suo modo, anche visionario. Ciò che conta, pertanto, è il linguaggio della “cosa cinema”: una cornucopia da cui estrarre ogni possibile effetto. “Arancia meccanica”, in questo senso, è una girandola di soluzioni visive che s’intrecciano ai temi più ricorrenti dell’opera del maestro: l’uso incalzante della camera a mano nelle scene di combattimento a mani nude e, soprattutto, nelle sequenze più violente (l’aggressione allo scrittore nella sua abitazione e l’uccisione della signora dei gatti), l’insistito carrello all’indietro (quando Alex si reca nel negozio di dischi, “la promenade” dei drughi in prossimità della piscina prima del regolamento di conti, l’attraversamento del bosco di Georgie e Dim per il pestaggio di un Alex “normalizzato” dalla cura Ludovico), la perfezione della simmetria “geometrica” della messa in scena (tutte le sequenze girate in interni, in specie nel Korova Milk Bar, a casa di Alex e in prigione), l’alternanza del “ralenti” con l’accelerazione in apnea dell’orgia tra Alex e le due ragazze rimorchiate al negozio di dischi e la centralità – di matrice espressionista – dello sguardo del protagonista sempre in primo piano (tutto il film, in realtà, esprime il punto di vista di Alex a partire dalla voce fuoricampo con cui si rivolge agli spettatori) riassunto magistralmente durante la cura Ludovico in cui i suoi occhi tenuti sempre aperti da pinzette divaricatrici esemplificano simbolicamente l’orrore e il disgusto sprezzante di Kubrick per l’essere umano. Un film realizzato con un budget povero (appena due milioni di dollari) e con una velocità inconsueta diventa l’archetipo della creatività più sfrenata: i costumi space-age-pop di Milena Calonero – plasticosi e dai colori violentemente acidi – definiscono la volgarità di una futuribile era del cattivo gusto e si fanno beffe della presunta eleganza inglese dissacrandone gli elementi portanti (la bombetta tipicamente british che indossano i drughi e il bastone da passeggio, così edwardiano, che trasformandosi in spadino ne ribalta il tranquillizzante uso comune). Raffinatissimo, ancorchè psicologicamente destabilizzante, l’impiego della musica come stimolo sensoriale e irritante provocazione: le sinfonie beethoveniane (sconvolgente l’impatto della nona utilizzata diversamente e come contrapposizione durante il trattamento psichiatrico a cesura tra un “prima dionisaco” e un “dopo cupo e doloroso”), l’overture rossiniana, il popolare “Singin’ in the rain” arrangiati elettronicamente con il moog di Walter/Wendy Carlos con un’efficacia senza pari. L’intollerabilità delle violenza delle scene è (voluto) eccesso audio-visivo: una chiara scelta di oltrepassare il limite dell’accettabile e la resa alle polemiche che accompagneranno il film e ne impediranno una obiettiva valutazione. “Arancia meccanica” per questo motivo è ancora il film più controverso della storia del cinema, a causa del suo registro estetico di matrice grottesca che stride enormemente col senso profondo dell’opera: una riflessione amarissima sulla violenza e la crudeltà dei sistemi di controllo sociale. Kubrick non ha la pretesa, però, di scrivere un saggio sulla “anatomia della distruttività umana” ma in maniera “alterata” vuole stravolgere le categorie del nostro mondo ordinato, tranquillo e pulito mescolando elementi ora comici ora tragici che sortiscono un effetto di straniazione fastidiosa. L’ascesa, la caduta e la risalita di A-lex – prima ancora che tragica metafora in chiave (solo apparentemente) deterministica del fallimento dell’evoluzione umana che si conclude con il controllo totale del corpus sociale sull’homo ferox fino ad allora felicemente e selvaggiamente libero di seguire le proprie pulsioni – rappresenta la rottura definitiva da parte di Kubrick con il quotidiano o se preferite con la logica della storia. La messa in scena della violenza così deforme, innaturale, paradossale equivale a violentare le piccole certezze umane lasciando il posto al dubbio doloroso, soffocante, metafisico. La sua inspiegabilità, non riconducibile ad alcun orizzonte di senso o di necessità contingente, praticata per puro piacere distruttivo con un’operazione di schizofrenica astrazione, è il cesello nichilista kubrickiano: pur avendo la possibilità di scegliere se praticare il bene oppure no, gli uomini non rispettano le regole morali di una società implosa nello sfascio di strade abbandonate e piene di immondizie. La scissione con il senso “finalistico” della storia, ricorrente, tra l’altro, nell’opera kubrickiana – lo stesso Arancia meccanica è un film circolare – pone un mare di interrogativi: quali le motivazioni che inducono al male e quale, dunque, l’immaginario di un (presunto) criminale, quali i criminali, quali le relazioni fra criminali e società, quale il significato della repressione e del recupero? Tra Skinner e Pirandello, Winnicot e Shakespeare, Kubrick ci lascia domande aperte a cui si può solo tentare di rispondere in quella drammatica impossibile ricerca d’una verità che mai si disvela agli occhi umani. (Nicola Pice)
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