L’azione più adrenalinica, la violenza più efferata, psicopatia in eccesso e tanta cinefilia. Quentin Tarantino omaggia quei filmacci en vogue negli anni sessanta – settanta che venivano proiettati in sudice sale cinematografiche collocate nelle zone più malfamate delle città americane. Le “grindhouses”, frequentate dal regista in gioventù, offrivano un doppio programma al prezzo di uno: porno hardocore in abbinamento a pellicole “exploitation” (sfruttamento) che, causa budget ridotto, puntavano tutto sulla rappresentazione estrema di violenza, inseguimenti, arti marziali, horror e sesso. Il sodale Robert Rodriguez propone e offre a Tarantino l’idea d’un progetto basato su un film diviso in due parti da dirigere, però, separatamente secondo gli standards del cinema di serie “b”, proiettate una dietro l’altra e intervallate da fake trailer, finte anteprime di spezzoni di film per l’appunto “grindhouse”. L’insuccesso dell’operazione negli Stati Uniti (probabilmente dovuto all’eccessiva lunghezza del prodotto: 190 minuti) determina, però, la distribuzione separata dei due film dopo un’opportuna rielaborazione in sede di montaggio. L’opera di Tarantino (a nome “Grindhouse – Death Proof/A prova di morte”) è sublime quintessenza del delirio cinematografico – citazionistico del suo autore, passatempo nostalgico ed adolescenziale, provocazione geniale e spudorata. In maniera del tutto ludica e spregiudicata il film contamina visivamente l’estetica “delle tette” di Russ Meyers al kung-fu di Bruce Lee, lo slasher senza coltelli e pistole al road movie fracassone in un risultato finale iper-pulp che offre forti shock erratici insieme ad un intelligente divertimento cinefilo. Il regista adotta lo stile “exploitation” nella fragilità del plot, nella regia e nel montaggio con zoomate repentine e stacchi narrativi incongruenti: graffia le immagini per riprodurre l’effetto “pellicola usurata” a causa del passaggio della pellicola da una sala grindhouse all’altra, confeziona un’opera dalla trama disarticolata, ripetitiva ed autoreferenziale infarcendola di dialoghi lunghissimi calibrati (volutamente con l’accetta) sulle belle – quanto nasty – ragazze che (una volta di più nell’immaginario tarantiniano) costituiscono la metafora della rivincita sessuale delle donne sul becero potere maschile. Sopra ogni cosa, comunque, l’autore offre agli spettatori un cocktail cinefilo dagli effetti inebrianti: ellissi temporali che sembrano vuoti di pellicola, sequenze che virano improvvisamente in bianco e nero, piani-sequenza virtuosistici che fanno il verso ad opere precedenti (Le Iene in particolare) e le consuete citazioni di cui dissemina l’intero film: la sequenza in soggettiva in cui lo stuntman Mike ruba scatti fotografici alle sue vittime rimanda al maniaco di “L’uccello dalle piume di cristallo” di Dario Argento, gli inseguimenti in auto ricordano “Mad Max” di George Miller e, in particolare, “Punto zero” di Richard Sarafian e quando Mike fa un salto col proprio bolide è impossibile non pensare all’Alfa di Maurizio Merli in “Italia a mano armata” di Franco Martinelli. Inutile, però, in tale (stupefacente) esercizio di stile affannarsi a cercare un senso, sterile criticare il film con dotti contrappunti recensitori. A Tarantino non interessa affatto (e in “Grindhouse…” meno che mai) insegnare, analizzare o costruire impianti teorici quanto, semplicemente, rappresentare e svelare, al contempo, i meccanismi illusori del cinema che non riproduce la realtà ma la sostituisce con generi. Questo film costituisce l’esemplificazione di una concezione infima dell’esistenza che è fluire incessante di nonsense regolato dal cinismo o, nel migliore dei casi, godimento visivo senza pretese di realismo a configurare un mondo che – con la sua folle velocità – è destinato alla combustione in una fine che è anche – come nello spettacolo – l’inizio ed in cui tutto si ripete nell’eterno ritorno dell’assurdo. Parafrasando Francois Truffaut, se preferite una menzogna ben organizzata a una realtà alla rinfusa (e, dunque, confusa), Quentin Tarantino è quello che fa per voi… (Nicola Pice)
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