Gli anni ‘50 sono finiti, siamo agli inizi dei ‘60: Pier Paolo Pasolini decide di ammorbidire la vertigine onirica – l’estremismo quasi visionario della sua opera – a favore di una linea narrativa tradizionale che insista, però, sugli aspetti ideologici e realistici. Questa scelta è marcata da un nuovo ulteriore shock tutto interno ai livelli espressivi. Egli infatti, abbraccia “toto corde” la rivoluzione cinematografica diventando regista dopo aver lavorato per anni come sceneggiatore. Se i primi capolavori (su tutti l’intenso “Accattone”) sembrano riprendere il mondo romanesco dei romanzi semplicemente traducendolo nel linguaggio delle immagini e dei suoni, ormai i punti di riferimento sono cambiati. Il cinema si rivela un veicolo comunicativo assai più potente della narrativa letteraria. L’audiovisivo diventa, dunque, una scelta della presenza fisica: nel cinema pasoliniano, comunque ancorato alla grande matrice del neorealismo, soprattutto alla lezione di Rossellini, si fa centrale, quindi, la struttura della cronaca e la registrazione degli oggetti, dei volti, dei paesaggi. Diventano fondamentali, pertanto, per capire quella sorta di “semiologia della realtà” le prove – solo apparentemente – minori: quelle legate alla riproduzione documentaristica. Nel 1963 dopo essersi procurato in giro per l’Europa sufficiente repertorio cinegiornalistico, Pasolini sente che è giunto il momento di avviare una riflessione critica sui conflittuali moti sociali e politici che scuotono l’occidente e non solo… L’occasione fornitagli dallo stesso produttore di “Mondo Libero”, Gastone Ferranti, sulla scia di “Europa di notte” di Blasetti, gli permette di evidenziare le incongruenze di un modello di sviluppo già fortemente sperequativo coniugando la consueta lucidità con un lirismo dolente. L’opera denominata La Rabbia assume i connotati di un racconto sequenziale in cui il lavoro di montaggio consente di far emergere tutte le contraddizioni: una sorta di giornalismo poetico “per immagini”. In fase di post-produzione, purtroppo, Ferranti preoccupato della dirompente “radicale” forza dell’opera e, in ossequio alla equidistanza becera figlia della paura di ritorsioni istituzionali, impone ad uno sgomento Pasolini l’interpolazione del film che esce con un pesante taglio iniziale e con l’aggiunta di una parte affidata a Giovanni Guareschi… secondo il consueto schema destra-sinistra di cui ancora oggi è vittima questo paese. Come evidenziato dalla critica “recensitoria” di quel periodo, il senso del film appare stravolto in un clima forzatamente compromissorio. La posizione di Guareschi è quella di un reazionario di destra, aggressivo ai limiti della volgarità, tranchant, e dunque del tutto inconciliabile con gli angosciosi dubbi pasoliniani… Con il nobile intento di ricostruire quella verità – la verità del suo autore – a distanza di quarantacinque anni ormai (2008), Tatti Sanguineti ha offerto a Giuseppe Bertolucci la possibilità di restaurare l’opera eliminando questa volta il contributo di Guareschi e aggiungendovi i sedici minuti iniziali che erano stati tagliati in fase di montaggio ma fortunatamente conservati negli archivi dell’Istituto Luce. Il lavoro svolto dal duo Bertolucci-Sanguineti è stato rigoroso e l’accoglienza riservata al film a Venezia ne è prova inequivocabile. Particolare menzione, poi, va fatta all’appendice (al film), L’aria del tempo, che è fine quanto amaro condensato delle menzogne di cui era investito il poeta friulano dalla televisione conformista di quegli anni. Finalmente viene fatta giustizia sul mosaico elegiaco dell’autore, su quel particolare “poema di realtà e visione” che va a configurare, probabilmente, un nuovo genere cinematografico che definiremmo docu-poema. Le immagini che scorrono in sequenza, infatti, modificate dal tocco di un montaggio sapiente, isolate dall’originario contesto, acquistano nuova forza e significato in un’alternanza di registri estetici differenti che dall’epica dolente si sposta all’analisi critica della società e anche all’invettiva politica. Il racconto pasoliniano è ricco: il funerale di De Gasperi, antifascista e padre della “nuova” patria, quelli di Pio XII, e di Marilyn, il trionfo del cosmonauta Titov nella piazza rossa, l’ascesa al trono di Elisabetta d’Inghilterra, l’elezione di Papa Giovanni XXIII e di Eisenhower, la visita nella pinacoteca del realismo socialista, la manifestazione antisovietica a Budapest, la tragedia della miniera di Morgnano e lo squartamento delle anguille alla presenza della Loren, il divismo di Ava Gadner, i balli in europa…e molto altro ancora. Tutto questo viene magistralmente frammisto ad immagini che riproducono quadri di Guttuso, Braque, Pontormo, Grosz, Pollock a sottolineare i momenti più salienti. Il regista delinea una cesura netta tra un “prima” e un “dopo” la II guerra mondiale col ritorno ad una normalità giudicata indecente. Paradossalmente la nuova condizione di pax immemore accresce il benessere economico del pianeta ma non riesce ad eliminare le ingiustizie sociali -che, al contrario, aumentano- di tutti coloro che “marginali” covano tensione e spirito di violenta rivalsa. La promessa “social-comunista” sembra oltretutto illusoria ed insincera se soffoca la libertà individuale con crudeltà. Il mondo, pertanto, appare a Pasolini vittima di un gigantesco equivoco o auto-inganno: l’idea, dunque, che la libertà di consumare possa significare essere liberi di autodeterminare la propria esistenza. Per di più la consapevolezza del proprio status è tacitata dalla forza pervasiva del più potente mezzo di comunicazione possibile – la televisione – che giustamente Pasolini individua come responsabile di un processo di omologazione che annulla le diversità e lo spirito critico diffondendo meschinità e qualunquismo piccolo borghese. Con anticipo profetico l’autore delinea inquietanti scenari di globalizzazione rappresentando un futuro che è già presente “in nuce” in cui, persino, la ribellione sarà sterilizzata dai conformismi modaioli (ed ecco sistemato pure il ‘68 a venire). La disperazione pasoliniana si mescola nel finale al dolore per i corpi straziati dalla violenza delle guerre e della bomba atomica e al sarcasmo con quel “memento mori” (ricordati che devi morire) che liquida con disprezzo le scene di frenesia edonistica del boom economico ma anche alla coscienza di un male oscuro e profondo che è proprio della storia umana come un gigantesco inestirpabile cancro. Il rimedio, se mai rimedio potrà esserci, non sarà costituito nè dalle utopie vagheggiate che sovrappongono nuovi autoritarismi (l’abiura comunista è imminente) nè dalla fuga…bensì dalla capacità “individuale” di indignarsi per il soffocante “status quo”. La rabbia, quindi…orgogliosa, furente, dolente e soprattutto consapevole. La rabbia come ipotesi di palingenesi come prospettiva, dunque, di un possibile neo-umanesimo. A distanza di tanti anni questa rimane – forse- la lezione più importante del più importante, ancorché eretico, intellettuale del nostro paese. E, per questo motivo, nell’anno in cui il cinema italiano ritrova dignità autoriale (con lo splendido Gomorra e il grottesco Il divo), la ri-scoperta di questo film ci appare l’evento più significativo. (Nicola Pice)
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