Fin dal suo primo lungometraggio (“Segni di vita” del 1967) appare evidente come il cinema di Werner Herzog fosse programmaticamente proteso alla ricerca di immagini mai viste o di sensazioni inedite. Una tensione prometeica verso l’assoluto e il proposito manifesto di una rifondazione del cinema costituiscono il sostrato fondativo di una trilogia (“I medici volanti dell’Africa orientale”, “Fata Morgana”, “Anche i nani hanno cominciato da piccoli”) che, successiva al sopracitato esordio, vede la luce alla fine di un lunghissimo viaggio – durato due anni – in terra africana determinato dal desiderio di reperire paesaggi incontaminati dove ambientare documentari metafisici (è senza dubbio il caso di “Fata Morgana”) o grottesche parabole metaforiche (l’antinarrativo e delirante “Anche i nani hanno cominciato da piccoli”). Sbrigativamente, almeno all’inizio, incasellato nell’ambito dello “junger deutscher Film” – movimento coevo alla nouvelle vague e, alla stessa stregua, in aperto contrasto con il vecchio cinema europeo – il regista tedesco, al contrario di altri illustri colleghi (Kluge, Wenders, Fassbinder, Schlondorff), non abbraccia tout court lo sperimentalismo e rifugge il realismo sociale assumendo ben presto le sembianze di un autore indecifrabile che, alla coerenza del cinema narrativo propriamente detto, preferisce dar spazio alla propria visionarietà sempre in bilico tra passioni proto-romantiche e malsane allucinazioni. “Aguirre, furore di Dio” – che segue il drammatico “Paese del silenzio e dell’oscurità”, tentativo impossibile di tradurre le percezioni sensoriali dei sordo-ciechi e il loro modo di “vedere” – esce nel 1972 e rappresenta il primo successo internazionale di Herzog. Siamo nel 1560 e fra due componenti di una pattuglia di Conquistadores spagnoli che è discesa lungo il fiume Urumbara alla ricerca del mitico El Dorado nascono conflitti insanabili sull’opportunità di continuare l’esplorazione stante la sempre maggiore impenetrabilità della foresta amazzonica. Lope de Aguirre, luogotenente della spedizione, si ribella alle decisioni del suo capo, Pedro de Ursua, e, dopo averlo fatto arrestare, procede nella discesa del fiume nonostante le difficoltà ambientali, la scarsezza di cibo, le malattie e gli attacchi degli indios. Follemente “compreso” in una missione che nella sua mente assume contorni misticheggianti, Aguirre elimina fisicamente tutti coloro che non vogliono proseguire in un suicidio annunciato, viene abbandonato dagli altri membri della spedizione fino a rimanere solo sulla sua zattera, circondato da scimmie urlanti ed in preda ad un delirio armai irreversibile. Riprese effettuate in ambienti reali (ed in alcuni casi in presa diretta) tra grandissime difficoltà con la collaborazione di un gruppo di operatori geniali (il direttore della fotografia Thomas Mauch su tutti) attraverso l’interazione conflittuale ma molto proficua tra l’autore ed il bizzarro interprete Klaus Kinski, “il suo nemico più caro” (con il quale Herzog girerà quattro film e a cui dedicherà nel 1999 un documentario-omaggio che apre la nottata di “Fuori Orario”). “Aguirre, furore di Dio” per tutti questi motivi, dunque, risulta un’opera di enorme fascino, il manifesto programmatico, in un certo senso, del cinema (o, meglio, della maniera d’intendere e fare cinema) di Herzog: un’esperienza fisica che, investendo totalmente la soggettività dell’autore e dei suoi sodali, lanci una guanto di sfida alle possibilità espressive della settima arte stravolgendone i codici linguistici e le figure poetiche. Il film contiene, infatti, elementi stilistici comuni nell’opera herzoghiana: il ricorso frequente alla macchina a mano, l’uso prolungato di movimenti circolari e, soprattutto, gli intensi ed ermetici primi piani del volto dei personaggi (e del protagonista) a veicolare metaforicamente lo smarrimento umano dinnanzi al mistero della vita e l’ansia inappagata di un Assoluto inconoscibile ed irraggiungibile. Le 25 scene del dramma incompiuto di Georg Bücher, pubblicato postumo nel 1879 molti anni dopo la morte dello scrittore, forniscono all’autore tedesco il soggetto per la messa in scena di “Woyzeck” che chiude lo speciale di “Fuori orario”. In una cittadina tedesca all’inizio dell’800 il soldato Franz Woyzeck viene trattato come uno schiavo dal capitano della guarnigione che lo vessa con le richieste più strampalate umiliandolo senza pietà. Persino il medico lo sottopone ad esperimenti pseudo-scientifici costringendolo a sottoporsi ad assurde diete alimentari tese a dimostrare la “ferinità” umana. Woyzeck sopporta ogni tipo di angheria perchè si trova nella necessità di doversi occupare materialmente della moglie e del figlio. Il solo commilitone Andres lo tratta con umanità e a lui Woyzeck, sempre più angosciato, confida di sentire “voci misteriose”, il segno di una progressiva dissociazione dalla realtà che conosce il suo momento depressivo più acuto quando sua moglie Maria lo tradisce con il tamburmaggiore della guarniglione. Il soldato, schernito dai compagni e dal capitano, acquista un coltello e uccide la donna in prossimità di uno stagno dove si lascerà annegare la notte stessa. Una didascalia appare mentre vengono inquadrate le due bare rammentando che “era da tanto che non capitava un delitto così”. Uscito nel 1979 dopo esser stato girato nel 1978 in appena diciotto giorni a Tel? nella Repubblica Ceca, cinque giorni più tardi il termine delle riprese di “Nosferatu, il principe della notte”, il film segue cronologicamente “L’enigma di Kaspar Hauser” (1974) e “La ballata di Stroszek” (1977) e ad essi si lega idealmente nella rappresentazione di personaggi marginalizzati, vere e proprie figure aliene niente affatto integrate nel proprio contesto sociale. Woyzeck – a cui ancora una volta Klaus Kinski conferisce magistralmente volto e gesti – non è semplicemente un patetico individuo vittima della propria ingenua ignoranza e, dunque, dell’incapacità di reagire ai soprusi che il mondo gli infligge ma, per Herzog, il martire di una tragedia più universale, di una violenza da cui è impossibile sottrarsi (prima come bersaglio di angherie insensate poi come carnefice della moglie e di se stesso) in quanto tratto fondante e imprescindibile della stessa vita umana. La triste parabola di questo freak pre-moderno è descritta efficacemente da Herzog con un progressivo inasprimento dei dialoghi, espressione d’una inesorabile esasperazione dei sentimenti (negativi), a cui fa da contraltare straniante una MDP che rimane sempre concentrata sul corpo umano limitandosi – ca va sans dire – alle mezze figure e ai primi piani e che, dunque, sembra contenere soffocati il dipanarsi degli eventi aumentandone la drammaticità. Di straordinaria efficacia e stupefacente bellezza è la fotografia di Jörg Schmidt-Reitwein a cui è affidata la funzione di evidenziare con una sapiente gradazione cromatica le situazioni emotivamente più intense: l’immenso campo d’un verde brillantissimo quando Woyzeck sente le voci provenire dalla terra, il ralenti sui toni del verde sporco e del marrone, invece, durante l’uccisione di Maria, i verdi-grigi della superficie dello stagno in cui l’infelice soldato s’annega virati al cupo, quasi spenti del tutto. Nessun commento, quindi, nessuna analisi, nessun manierismo: sono ancora una volta i corpi, i volti dei corpi e i luoghi in cui sono rappresentati quei corpi – le immagini, dunque – a restituire il senso dell’opera. E’ estremamente improbabile rovesciare lo status quo, impedire le ingiustizie sociali, modificare il corso della storia – al di là dei pur necessari sforzi – e non esiste, pertanto, possibilità alcuna di interrompere il continuum di violenza e di dolore in cui sono immersi gli esseri umani. La morte, per Herzog, è l’unica via di fuga, il suo compiersi il riscatto delle sofferenze della vita e le modalità con cui essa si compie un atto di romantica e disperata sfida. (Nicola Pice)
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