Che cos’è la vita? “Mi interessa il modo in cui la vita di un essere umano è intaccata da un avvenimento e come possa prendere tutt’altra direzione qualora invece succeda un’altra cosa. Gli individui sono legati gli uni agli altri da fili invisibili. In questo momento noi stiamo parlando qui. In un altro luogo l’operaio di una fabbrica di aerei sta litigando con la moglie. Nessuno di noi lo conosce, e non lo incontreremo mai. Ma ha strapazzato la moglie, è furioso, non avviterà bene il bullone dell’aereo, anche se è il lavoro che fa abitualmente tutti i giorni. Forse sarete voi, o forse io, o forse le nostre mogli che prenderanno quell’aereo tra cinque anni, e l’aereo precipiterà. Siamo legati a quest’uomo, anche se ora non possiamo saperlo. Nelle zone più profonde si agita il pensiero che in qualche luogo si delinei un evento che avrà le sue conseguenze nell’avvenire. Il problema è come trovare il filo”. (Krzysztof Kieslowski, intervista a “Positif”, 1988). In un incidente stradale muore – in prossimità della città di Parigi – il musicista Patrice ma sua moglie Julie sopravvive. Abbandona al culmine della disperazione l’appartamento in centro per trasferirsi in periferia. L’assistente del marito Olivier l’aiuta ed alla fine si abbandonano ad una notte d’amore. Julie è molto confusa e vuole dimenticare la partitura per il “Concerto per l’unificazione dell’Europa” che il defunto concertista stava preparando. Del tutto “casualmente” (un servizio televisivo) apprende che il marito aveva un’amante – l’avvocato Sandrine – e rintracciatala, scopre che è incinta di lui. Le regala la vecchia casa e decide di portare a compimento il “Concerto”. Rinasce poco a poco e decide di vivere insieme ad Olivier. Forse lo ama. E’ l’alba: s’odono le note del coro finale del “concerto”, si vedono Julie, la madre e l’ecografia del bambino che nascerà. Julie piange: schermo blu. “Film blu”, apertura della trilogia che Kieslowski dedica alla Francia, è dominato dalla straordinaria prova d’attrice di un’intesissima Juliette Binoche. Gli egoismi prima e i rimorsi dopo e i gesti riparatori finali della donna sono la sostanza di un’opera impostata sulla presenza – leitmotiv – del colore blu e delle sue sfumature e di un’infinità di simboli: fiori, lampade, acqua. Tutto, però, è funzionale (come lo sarà anche per gli altri due film della trilogia, quello rosso specialmente) al tentativo kieslowskiano di dipanare la matassa del senso “ultimo” delle azioni umane: se, dunque, esse siano frutto della casualità o assolutamente determinate – se non pre_determinate – o quanto meno indissolubilmente interconnesse. La metodica insistenza sui primi piani (Kieslowski è bravissimo ad inquadrare i volti e a catturarne le espressioni) e sui dettagli che alternativamente appaiono ora sfocati ora messi a fuoco sembra proprio la metafora dell’incertezza, del dubbio su quale sia il “perché” degli accadimenti. Le sequenze, infatti, si succedono in forma esasperatamente ellittica: si stacca sempre un attimo prima di sapere che cosa avvenga. Il regista nel finale ha un’impennata sperimentale, improvvisa quanto violenta, in cui cita apertamente il “feto spaziale” dell’odissea kubrickiana – piccola incerta speranza forse – prima che le immagini si mescolino con una successione di colori sporchi, di volti, di dettagli enigmatici. Le domande iniziali rimangono sospese: il caso che domina la vita degli uomini non solo è imprevedibile ma anche crudele e beffardo. Cinema allo stato puro per un puro Kieslowski. Un sedicente inquieto cattolico alla continua faticosa ricerca di un dio. (Nicola Pice)
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