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(Ri)visti in Tv: Il Grande Sonno di Howard Hawks (1946)

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Cinque autori per il più complesso enigma poliziesco che sia mai stato congegnato: Raymond Chandler, William Faulkner, Leigh Brackett, Jules Furtham (quattro sceneggiatori) e un regista (abilissimo) Howard Hawks. A cui s’aggiunge un gruppo di attori dall’incredibile talento: Humphrey Bogart, Laureen Bacall, Dorothy Malone, Elisha Cook Jr. “Il Grande Sonno“: la summa del noir, dell’hard-boiled, del detective-movie, lo spartiacque tra due differenti “visual styles”. Si chiude, infatti, in maniera definitiva l’era ottocentesca del racconto poliziesco incentrato per lo più sul delitto e si apre quella di un cinema in cui gli elementi prevalenti siano l’ambiguità umana ed il cinismo. Philip Marlowe – la quintessenza del “private eye” (investigatore privato), già comparso sul grande schermo ne “L’ombra del passato” e qui interpretato in maniera sublime da Bogart – è il personaggio su cui è incentrato l’ordito narrativo. Il detective, che ha ricevuto l’incarico di scoprire chi ricatta la figlia minore del generale Sternwood con alcune foto pornografiche, si trova dinnanzi ad una realtà frammentata dal sapore arcano ed incomprensibile. Marlowe s’accorge di aver messo le mani in un vespaio pericoloso: Vivian, la sorella maggiore di Carmen, (un’affascinante Lauren Bacall) s’innammora di lui e riceve la proposta di acquistare le foto compromettenti ma il ricattatore viene ucciso prima d’incassare il denaro, un’organizzazione criminale sembra far parte dell’operazione e, nel frattempo, nella vicenda compare anche la figura del direttore di una casa da gioco la cui moglie è fuggita con il marito di Vivian… Un groviglio inestricabile per un finale altrettanto incomprensibile e sospeso. Le scene si susseguono, infatti, quasi fossero in sè compiute seppur indecifrabili perchè la fitta serie di motivazioni, di ri-costruzioni dell’intera vicenda deve essere solo un pretesto alla dimostrazione dell’assunto complessivo dell’opera: l’insodabilità assoluta del reale che fa da sfondo alle schermaglie dialettiche – anch’esse per lo più vane ed inconcludenti – dei personaggi e soprattutto ai memorabili dialoghi tra Bogart e la Bacall corollario di un’assurda e celebralmente torbida storia d’amore. Protagonisti del racconto, pertanto, non sembrano essere (soltanto) i personaggi che s’aggirano incerti nel labirinto di un “mistero” opprimente e irriducibile quanto un’agoscia impalbabile ma percepibilissima, un’atmosfera greve di mancanza di speranza di uomini e di donne che, avendo visto il male da vicino, trascinano le proprie vite nel cinico disincanto. I cupi contrasti del bianco e nero di una fotografia, comunque, a bassa intensità luminosa, le riprese notturne e oblique, il montaggio serrato, gli ambienti claustrofobici proiettano le figure del film (e noi spettatori con loro) in un’incerta dimensione al confine tra la realtà e l’incubo. E’ il noir a cristallizzare uno status esistenziale di disagio mentale metafora della definitiva perdita dell’innocenza e dello sbandamento di un mondo che, uscito dalla guerra, ha bisogno di costruire un nuovo orizzonte di valori. Un cult che (vi) invito a recuperare e a gustare con l’attenzione vigile che meriterebbe. (Nicola Pice)


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