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Jack White – Blunderbuss (2012)

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Finalmente ho il mio disco dell’anno. E quest’anno, potrei giurarci, per la prima volta non sarà solo il mio. Mr. White ha imparato, oltre a un mucchio di altre cose, a saper vendere la sua merce e Blunderbuss, già al di là dei suoi meriti artistici, è destinato a diventare disco chiacchierato sia per l’autore che l’ha progettato sia per la strategia promozionale che lo ha accompagnato. Una perfetta tempistica nella scelta dei singoli, ascolti gratuiti in rete, anticipazioni e, di contro, fittissimi misteri. Perché il signor White ha sempre parlato, tanto, di quello che vuole farci sapere e pochissimo e niente di quello che non vuole si sappia, manovrandoci a suo piacimento proprio come la freccia di un archibugio. Sono certo quindi che molti si sentiranno in obbligo a farselo piacere, questo suo primo album tutto solo. Anche rischiando di non riuscire a trovare quello che cercavano. E pur tuttavia avranno gioco facile perché Blunderbuss è disco che conquista senza troppa fatica, portando Marc Bolan, Ray Davies e Jimmy Page tra le braccia dei nipoti di chi i T. Rex, i Kinks e gli Zeppelin li ascoltava quaranta anni fa giurando un amore eterno durato invece quanto la pausa dalla prima sega al primo fidanzamento. Destino che probabilmente toccherà condividere a Blunderbuss, inseparabile compagno di giochi per qualche mese o anno, poi ridimensionato ad oggetto d’arredo. Oggi però, complice non determinante una concorrenza che scende in campo senza armi in pugno, Blunderbuss si erge di una spanna sopra le teste degli altri, come fosse un Mellow Gold trasportato al confine degli stati del Sud senza tuttavia puzzare di burrito raffermo. Jack White lavora con minuzia e attenzione ai dettagli, costruendo un suono che rifiuta di rimanere schiacciato nella sua lapidaria classicità e che sfoggia la sua attualità proprio mentre scende le scale per andare a trovare i tesori del passato: il tappeto drum ‘n bass che si srotola sotto il riff di Freedom at 21, l’assolo stonesiano subito bissato da quello augeriano su Missing Pieces, la tempesta di maracas, piatti e batteria che si muove sotto, e non sopra, Hypocritical Kiss, l’assolo frantumato che risolve il crescendo drammatico di Weep themselves to sleep, il beatbox che introduce alla cover di I‘m shakin’, il double bass che doppia il pianoforte di On and On and On e gli altri dettagli che vi invito a scoprire sotto la scorza di un disco destinato a fare proseliti. I maschietti torneranno a fare l’air guitar su Sixteen Salteens e le donne ad accarezzarsi l’inguine mentre passano le carezze di Blunderbuss. I Faces dormono fianco a fianco con Dave Brubeck, i Little Feat si abbracciano con Elton John, Donovan ride assieme alle iene. Niente è più al suo posto eppure tutto lo è. The bitch is back. (Franco Dimauro)


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