Drums: sono le prime cose che ascolti sul terzo disco degli XTC. E’ il famoso attacco di batteria di Making plans for Nigel, una delle dieci cose da salvare di tutta l’epoca new-wave. Wires: quelle di David Gregory appena arrivato a dare sostegno e manforte al lavoro di Andy Patridge. Il resto è fantasia ed eclettica arte pop, quella che consacra proprio con questo terzo album Andy Patridge e Colin Moulding con il terribile epiteto di Lennon/McCartney del dopo-punk (Strummer e Jones erano stati quelli del punk, Mould e Hart saranno quelli dell’hardcore, Orzabal e Smith per l’elettro pop, Morrissey e Marr per gli anni Ottanta, i fratelli Gallagher per i Novanta e così via per ogni stagione, senza tuttavia trovarne mai alcuni, Nd LYS). Quella di Drums and Wires è in realtà una variante britannica e bianchissima (White Music era stato il loro primo manifesto programmatico, del resto) del nevrotico funky dei Talking Heads. Una serie infinita di marce spigolose e appuntite dentro cui fanno capolino smorfie anni Sessanta figlie del muso lungo di Ray Davies più che dell’occhio molle di Paul McCartney e che svelano l’abilità melodica della band che entrerà a pieno regime nel decennio successivo. Allacciandosi perfettamente, pur partendo concettualmente da parametri dissimili, alla visione pop contemporaneamente rielaborata dai vari Elvis Costello e Joe Jackson, gli XTC tratteggiano con la grazia di uno psicolabile piccoli capricci ritmici come Outside World, Scissor Man (aggiungetela pure alla copia pirata di Beat Crazy che state registrando per un amico, non si accorgerà di nulla), Day In Day Out, Reel by Reel o Millions (il pezzo su cui si sente maggiormente la mano di Steve Lillywhite). Dei balbuzienti che cantano come dei saltimbanchi senza mordersi la lingua. Abilità non da poco. Ma se cercate i Beatles sappiate che qui dentro non li troverete di certo. (Franco Dimauro)
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