E dove cazzo lo infili un disco così? Dico, se hai un negozio di dischi, dove lo metti? Nello scaffale del punk? In quello della new-wave? Forse che starebbe meglio in quello dedicato al power pop? Quello che nessuno va mai a visitare? Oppure in quello dedicato alla glam music. Che tanto qualcuno che va a rovistare tra David Bowie e Lou Reed c’è sempre, anche solo per ricordarsi di essere stato giovane pure lui. E se avete uno di quei negozi che usano le ancor più approssimative categorie Rock e Pop? Be’, se avete uno di quei negozi, saprei io dove infilarvelo. Ma probabilmente avete già fatto da voi, spostandolo magari dal primo scaffale al secondo quando Another Girl, Another Planet è diventata la gonzissima colonna sonora dello spot Vodafone aiutandovi a vendere qualche copia di uno di quei dischi che da anni non avete mai saputo rifilare a nessuno perché in fondo non piaceva manco a voi. Perché The Only Ones è un disco che parte sbagliato. Un album che ha dentro due cose come Another Girl, Another Planet e City of Fun e decide di non esibirle subito, è un album che vuole orecchie attente. Quelle che il punk, qualsiasi cosa voglia dire nel 1978, non può garantirgli. I quattro ragazzi di Londra hanno azzeccato il nome però. Perché, a parziale difesa del negoziante di dischi di cui all’inizio, gli Only Ones unici lo erano davvero. Disperati di una disperazione dandy e romantica. Ribelli di una ribellione elegante e raffinata. Gente fuori posto. Ne’ coi buoni ne’ con i cattivi. Dicevamo dell’apertura “sbagliata”. Affidata a un pezzo notturno come The Whole of the law. Ci si aspetta si alzi il sipario e invece Peter Perrett lo sta già chiudendo. Sassofono languido, pennellate di chitarra, batteria smooth, voce dolente. Un pezzo da struscio. Spiazzante, in un anno in cui gli album più belli si aprono con Uncontrollable Urge, Fast Cars, Safe European Home, Non-Alignment Pact, Radios in motion, Practice Makes Perfect. Anthemiche e simboliche già dal titolo. Dopo due minuti e mezzo però arriva Another Girl, Another Planet. E davvero si vola verso un altro pianeta. Una canzone perfetta, se mai ne è stata scritta una. Dall’intro di chitarra stoppata allo scivoloso fraseggio che introduce alla strofa e poi da questo al ritornello appiccicoso e ancora da qui alla seconda parte del pezzo, gli stacchi che precedono il lancio dell’ assolo e poi di nuovo in orbita verso la galassia del pop perfetto. Un’altra ragazza, un altro pianeta. E tutti speriamo siano i nostri. Dopo di lei si atterra su Breaking Down. Altro pezzo spiazzante, visti i tempi, dove vengono fuori gli influssi hippiedelici portati dai veterani Mike Kellie (a lungo tra le fila degli Spooky Tooth) e Alan Mair (fondatore e bassista nei Beatstalkers, il più importante gruppo beat scozzese, dal ’62 al ‘69 NdLYS). Brano carico di suggestioni sixties con un organo e un ponte quasi doorsiani e la voce di Peter che dai toni morbidi della strofa si apre a quelli nasali dell’ inciso. City of fun, a ruota, è uno dei migliori “scarti” degli England ‘s Glory. Un boogie a rotta di collo guidato dalle chitarre sicure di Peter e John Perry attraverso i campi di pailettes dei T. Rex e degli Spiders from Mars, quelli pieni di rifiuti urbani dei Dead Boys e degli Heartbreakers o quelli di fili elettrici dei Television con i quali ultimi la band si imbarca nel suo primo tour a promozione del disco e con cui condividono l’ amore per certe cavalcate chitarristiche dell’ acid rock californiano degli anni Sessanta. Grateful Dead, Buffalo Springfield, Quicksilver: The Beast le sfoggia illuminate dai bagliori dei quartieri a luci rosse di Londra. Altrettanto schizofrenica la seconda facciata del disco, divisa tra rapidi e schizoidi brani dal taglio punk come Language Problem (la cosa in assoluto più assimilabile al concetto estetico ed espressivo del punk mai inciso dal gruppo, NdLYS) e The Immortal Story e fantastiche ballate urbane come No peace for the wicked o It ‘s the truth. Se non sapete in quale scaffale metterlo, mettetelo pure nel mio. Reparto “dischi fondamentali”. (Franco Dimauro)
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