Venticinque anni fa (un quarto di secolo, pensate, non ieri l’altro!) Paul Simon con il suo Graceland aveva aperto la strada alla contaminazione con le musiche provenienti dal continente africano. Ed altri grandi musicisti si sono ben presto sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda del cantautore americano (Ry Cooder, Peter Gabriel, David Byrne). Quel progetto così appassionato e lungimirante ha radicato i suoi frutti e oggi è un assunto incontrovertibile e pane quotidiano per chiunque si avventuri e/o frequenti i sentieri musicali; si tratti di musicisti, di critici o di semplici fruitori. Non solo, si è anche permesso a musicisti e generi del continente nero (e non solo quello, ma quello principalmente) sepolti dall’oblio e relegati a un underground locale, di riemergere con cristallina forza. Chi mai, altrimenti, avrebbe potuto fare la conoscenza alle nostre latitudini di artisti come l’etiope Mulatu Astatke o il ghanese Ebo Taylor, giusto per fare un paio di nomi, attivi e seminali fin dai ’60? Facile per le nuove generazioni globalizzate sparse per il mondo attingere a un patrimonio culturale immenso. Patrimonio cui non è estraneo – anzi ne è stato a suo tempo divulgatore e punta di diamante – Fela Kuti in virtù dei prodromi del suo Afrobeat. Ricordiamo brevemente che nel ’74, nel momento in cui in Etiopia l’imperatore Haile Selassie veniva scalzato dal nuovo regime guidato da Mengistu Haile Mariam, si registrò la fine di un florido e creativo periodo della scena musicale locale che aveva portato ad una felice commistione di musiche della tradizione etiope e il jazz, noto con il termine di ethio-jazz. E proprio il già citato Mulatu Astatke di questo fenomeno è stato il principale esponente. Ora, a più di quarant’anni di distanza, qualcuno prova a far rivivere quella musica al di là dell’oceano Atlantico. I Debo Band, capitanati dall’etnomusicologo e sassofonista di origini etiopi Danny Mekonnen, sono un collettivo afro-americano composto da undici elementi e costituitosi in un sobborgo multietnico (il quartiere denominato Jamaica Plain) di Boston intorno al 2006. Al loro debutto – sorprendente davvero – propongono una miscela coinvolgente di jazz & funk speziato dalla world music e dalle radici etiopi tradizionali, etichettata come ‘Ethio-groove’ (oltre che come ‘Ethio-jazz’), che è tutto fuorché peregrina, perché è il risultato di un pregevole lavoro di studio e di recupero. Ci sono energia e freschezza, colori e profumi etnici, vibrazioni ska ed autenticità, ma anche una straordinaria sostanza strumentale (grazie all’utilizzo di ottoni, sassofoni, trombe, chitarre elettriche, fisarmoniche, violini) proiettata verso il futuro e non ancorata alla mera (comunque valida) estemporaneità world. In un pezzo lontano d’America rivivono le atmosfere ‘dust’ e vintage di Addis Abeba. Tra l’altro il gruppo ha avuto modo di esibirsi proprio in Etiopia in due diverse circostanze: all’Ethiopian Music Festival di Addis Adeba e al festival di Sauti Za Busara in Zanzibar. Insomma non si cerca di ricomporre l’essenza poliritmica della Golden Age d’Etiopia (ricordiamolo, “Terra Promessa” della comunità giamaicana) dei ’60 e ’70, ma di andare oltre nella creazione di un sound globale. Nuove e antiche composizioni vengono servite con il supporto vocale del cantante Bruck Tesfaye ed il sostegno d’un composito groove sonoro. Brani strumentali (come l’ipnotica “Akale Wube” in apertura) si mescolano a danze popolari e marce tipiche della tradizione, offerti all’ascolto con un impeccabile piglio crossover del ‘melting pot’ culturale. Una vera sorprendente novità, credetemi. (Luigi Lozzi)
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