Nel 1976, proprio mentre l’esplosione del punk dovrebbe dar loro ragione e la loro Slow Death è una delle canzoni più trasmesse dalla bocca del juke box della boutique di Malcolm McLaren, i Flamin’ Groovies si siedono dalla parte sbagliata del marciapiede. Se Teenage Head era stata l’apoteosi del suono stonesiano e il trionfo di Roy Loney, Shake Some Action sceglie i Beatles e Chuck Berry come nomi tutelari mentre il nuovo acquisto Chris Wilson sollecita la svolta in direzione power-pop, spinti dalla mano sapiente di Dave Edmunds con cui la band inizia a lavorare sin dal lontano 1972 con l’idea di registrare un paio di singoli e un intero album. Il risultato è un disco che spiazza il nocciolo duro dei vecchi fan con un suono assolutamente meno virile. Dalle finestre dei Rockfield Studios bussano echi di Merseybeat e di jingle-jangle byrdsiano e i nuovi Groovies che sono andati ad ossigenarsi nel Galles dopo la risoluzione del vecchio contratto e l’allontanamento di Loney e Tim Lynch, li lasciano entrare. Qui i Flamin’ Groovies reinventano se stessi, look (taglio di capello in perfetto stile beat ed elegantissimi abiti mod al posto dei capelli incolti e dei pantaloni di pelle che campeggiavano sulle prime copertine) e strumentazione (l’ Ampeg di Cyril Jordan viene sostituita da una Rickembacker 12 corde mentre George Alexander abbandona il suo vecchio basso in favore di un Hofner a violino in un ennesimo omaggio a Paul McCartney, NdLYS) compresi. I pezzi chiave dell’album sono ovviamente i due singoli Shake Some Action e You tore me down, risalenti alle prime sessions con Edmunds del 1972 (gli altri pezzi erano Get a shot of R ‘n B, Little Queenie, Married Woman, Tallahassie Lassie e il fantastico inno anti-droga di Slow Death di cui abbiamo detto, registrati per l’abortito Bucket of brains, NdLYS). Entrambe scritte dal team Jordan/Wilson mostrano un suono fortemente melodico e ricco di arpeggi folk rock nella miglior tradizione californiana e costituiscono la chiave di lettura dei nuovi Groovies che abbandonano definitivamente il cazzuto suono dei primi anni Settanta per dedicarsi, nella trilogia che chiude il decennio, ad una innocua e tutto sommato abbastanza inutile parodia beatlesiana d’autore. Chi vi dice che questi sono i Flamin’ Groovies migliori, o mente o è un fan dei Beatles. Siate scaltri. (Franco Dimauro)
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