Siamo completamente immersi in quel “disagio della postmodernità” di cui parla Zygmunt Bauman, caratterizzato da un’incertezza che ha frantumato tutte le più elementari sicurezze individuali. La progressiva decomposizione delle istituzioni tradizionali – fondamentali per la fissazione (non solo simbolica) dell’identità sociale e la custodia dei valori collettivi – determina un relativismo (soprattutto etico) che disorienta la coscienza comune e apre il campo all’inesorabile avanzare delle angosce: su tutte il senso di inadeguatezza, di incapacità, cioè, ad aderire con sufficiente prontezza a tutti quei modelli comportamentali che – in vorticosa successione e sempre diversi da quelli precedenti – il sistema macroeconomico, la famiglia, le conventicole socio-politiche ci impongono. Nell’anno (2010) che ha visto la pubblicazione in Italia di un gran numero di dischi meritevoli di menzione per qualità, l’esordio di Antonio Di Martino (Dimartino tutt’attaccato è il moniker scelto per Cara Maestra Abbiamo Perso) costituisce probabilmente la raffigurazione musicale più autentica dell’analisi baumaniana al pari del ben più celebrato Vasco Brondi di Per ora noi la chiameremo felicità. Già voce e bassista dei Famelika, l’autore siciliano descrive nei nove brani del disco con grande efficacia un’impasse che ormai non è circoscrivibile soltanto alla generazione a cui appartiene ma che diventa condizione umana sempre più universale. Diversamente, però, dal ruvido singer altrimenti noto come Le luci della centrale elettrica (peraltro presente nel disco con il duetto della memorabile Parto) che spinge il pedale su un iper-realismo talvolta scomposto e spesso monocorde ma rabbiosamente sincero, che non teme, però, la “mise en scene” di imperfezioni e debolezze, Dimartino mescola le sonorità differenziando con sorprendente abilità gli stili e il registro emotivo dei singoli brani quasi a voler dare anche una veste estetica alla frammentazione dei contenuti e delle storie. Con un’operazione comune a molti altri musicisti contemporanei, l’autore non rinuncia al gioco del rimando citazionista ma, differentemente da alcuni che sembrano procedere a tavolino con calcolo opportunistico, Dimartino è mosso da un’urgenza comunicativa che rinuncia alle pose stereotipate per, di volta in volta, gridare, sussurrare, fantasticare, ricordare o ironizzare. La concitazione indie rock di Cercasi anima, vocalmente oscillante tra Rino Gaetano nell’incipit e Ivan Graziani nel refrain, recherche di autenticità in un deserto consumista o la dichiarazione di resa alla inevitabile barbarie trionfante di Cara maestra, vagamente punkeggiante, sono interrotte dalla soffusa dolcezza melodica della tenchiana Ho sparato a Vinicio Capossela che dà corpo con le sue gracchianti distorsioni finali ai fantasmi del fallimento sentimentale evocato per tutto il brano. Il ping-pong vocale con Brondi nella struggente Parto, disperato bozzetto dello sdradicamento e dell’abbandono su armonie cantautoriali anni ‘70, lascia il passo alla filastrocca surreale di La lavagna è sporca, improvvisata allucinazione free rock che s’avvale della preziosa collaborazione dei Mariposa Alessandro Fiori ed Enrico Gabrielli e piomba nelle inquiete atmosfere di 999, uno dei momenti più drammmatici dell’intera opera, in cui Dimartino sulle note darkeggianti del pianoforte esprime tutto il proprio rabbioso disprezzo per un mondo in sfacelo che non può essere cambiato e che ci tiene in gabbia proprio come i leoni drogati dello zoo. Il minuetto disincantato di Cambio idea, autoironica presa in giro sulla volubilità, e la cover di La ballata della moda (ancora una volta Luigi Tenco) cantata con Cesare Basile, produttore del disco, precedono le malinconie folk dell’incantevole Marzo ‘48. Minimale quanto coinvolgente chiusura del disco, evocazione di drammi lontani e metaforico commiato – “…vorrei morire cantando, potresti non trovarmi sotto ai balconi nei giorni violenti e splendidi…” – ma anche tenace e disperata richiesta d’amore – “…pensami almeno nei giorni feriali… pensami almeno davanti allo specchio…”. L’amore: ciò che conta ancora in questa (post)modernità liquida e dai contorni sfuggenti. (Nicola Pice)
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