Esco dal lavoro e approfitto per prendere un bell’aperitivo con un’amica che non vedo molto spesso. Poi lei si offre di accompagnarmi visto che, non essendo padovano ma frequentando solo una strada e uno studio della città del Santo, rischierei di perdermi in tangenziale. I montanari a Padova si perdono sempre. Lei non verrà al concerto, però, tornerà nello stesso posto fra qualche giorno a sentire (sigh) Biagio Antonacci. Vabbè, arrivederci e grazie per l’aperitivo. Lei rimane comunque molto simpatica e in ogni caso le voglio bene. Basta che non si parli di musica, ok? Entro e prendo posto. Dopo poco inizia il concerto. Jeff Tweedy e gli atri cinque ragazzi di Chicago entrano e senza dire una parola attaccano “One Sunday Morning”, dedicata al boyfriend di Jane Smiley (sembra che il pezzo sia nato dopo un confronto fra i due in una chat intorno a questioni religiose), scrittrice che vinse il premio Pulitzer nel 1991 con una storia (a thousand acres) che si ispirava al Re Lear di Shakespeare. La ballata scorre lenta, ma non silenziosa (cit.) e intanto si crea quell’atmosfera di attenzione e attesa che sapientemente i nostri hanno progettato. Il fatto è che i Wilco non fanno mai quello che tu ti aspetti, ti prendono alla sprovvista, ti portano lontano, in alto, per poi farti precipitare con una violenza che non ti aspetti, ma poi, quando stai per stramazzare al suolo, ti riprendono e ti portano di nuovo su. Sembrano un cubo di Rubik la prima volta che te lo trovi fra le mani: quando pensi di essere riuscito a metterlo in ordine, ecco che devi ripartire daccapo. Le emozioni che si provano ascoltandoli ricordano vagamente quelle che provi da bambino quando entri nella giostra del castello incantato: sei lì tranquillo che cammini al buio e all’improvviso appare il mostro lì di fianco che ti fa fare un salto che nemmeno Michael Jordan. Bellissimo. È così che due ore piene zeppe di musica iper-contaminata, stacchi pazzeschi, scale a salire e a scendere, note singole tenute per un minuto mentre intorno si scatena l’inferno, assoli di chitarra e poi di chitarre, che intrecciano le note in armonie solo apparentemente semplici, passano in due minuti. A un certo punto qualcuno urla: “Non vogliamo andare a casa”. “No, non andate via” – dice Tweedy – “rimanete qui, abbiamo ancora un bel po’ di cose da farvi ascoltare”. Questa band compie quest’anno 18 anni, ma è nata già grande. E così passano “I might”, una bellissima “Art of Almost”, “Hummingbird”, “Whole Love” (che ogni volta che l’ascolto non posso fare a meno di pensare a “Feelin’ groovy” di Simon and Garfunkel) e via, fra cambi di chitarre fra la fine di una canzone e l’inizio di un’altra, in un vortice di adrenalina, fino ai doppi finti saluti. I Nostri infatti escono una prima volta, rientrano, risalutano e ri-escono ma poi (appena il tempo di uscire a prendere una bottiglia d’acqua), entrano ancora una volta e ricominciano, fino all’ultima, meravigliosa, “I’m a wheel”. Il concerto è finito, ma tutti vorrebbero che ricominciasse di nuovo. (Alessandro Grainer)
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