L’impatto che ha nella storia dell’horror “La notte dei morti viventi”, esordio registico del 1968 di George A. Romero è paragonabile solo a quello che ha avuto qualche anno prima “Psyco” di Alfred Hitchcock nell’ambito del thriller: rivoluzionario. Con la collaborazione di un gruppo di cineasti di Pittsburgh l’autore imbastisce una storia che innova completamente non solo l’iconografia “zombistica” tradizionale, introdotta nel 1932 da Victor Halperin con “White Zombie”, ma il senso stesso del fare un cinema di terrore/orrore che abbandona definitivamente l’estetica “gotica” e intraprende la strada di un realismo semi-documentaristico ancor più cupo e angoscioso. Un’opera che riesce a tesaurizzare la scarsità di mezzi produttivi a disposizione per scuotere un’opinione pubblica già turbata dalla guerra del Vietnam che dal 1964 coinvolgeva sempre più l’America. Un film piccolo – a ben vedere – girato nel bianco e nero dei 16 mm, recitato da attori non professionisti (tranne qualche eccezione) che in maniera magistrale, però, diventa l’archetipo delle paure generazionali e/o inconsce di un’intera collettività. L’attribuzione della causa che determina il risuscitare dei defunti e il loro successivo impulso cannibalesco nei confronti degli esseri umani ad una nube radioattiva provocata dalla ricaduta di una sonda spaziale di incerta (aliena?) provenienza esemplifica il sentimento d’allarme diffuso alla fine degli anni sessanta nei confronti degli effetti delle radiazioni atomiche. La minaccia alla sopravvivenza stessa del genere umano per la prima volta non viene dall’esterno – come già nei film “classici” di fantascienza – bensì dagli uomini stessi, resuscitati non in prospettiva teleologicamente e cristianamente salvifica, ma per rompere un tabù ancestrale (il cannibalismo). I morti-viventi che ciondolano catatonici con le gambe rigide, condannati a soddisfare una pulsione disgustosa, sembrano la spietata metafora della recondita quanto inevitabile implacabilità della violenza dei rapporti sociali in una sorta di post-moderna, meccanicisticamente hobbesiana, re-interpretazione di una realtà all’insegna dell’ “homo homini lupus”. La straniante, sgranata e livida fotografia in bianco e nero che sfrutta la spettrale luce naturale, i dialoghi e la musica che rimbombano come se fossero stati registrati in un ambiente vuoto, la magistrale scansione dei tempi narrativi e, soprattutto, degli spazi (il dentro, il fuori, il sopra, il sotto) con un montaggio serratissimo, la traballante macchina da presa feticisticamente diretta sulle mani graffiate, mozzate e mangiate sono i segni di uno sperimentalismo che fa di questo film il battistrada di una lunga serie di horror-gore e che nel sarcasmo beffardo del finale (l’unico sopravvissuto viene scambiato per uno zombie e ucciso da un gruppo di volontari guidato da un ottuso sceriffo) si risolve in una denuncia contro il cinismo e l’intolleranza praticata dai rappresentanti del potere nei confronti di chi appaia “altro” in una variazione prospettica che sposa l’ottica dei morti-viventi-cacciatori alimentando l’angoscia dello spettatore. La mostruosità, dunque, viene esautorata da qualsiasi “allure” romantica di stampo ottocentesco per “incarnarsi” letteralmente in noi stessi o in coloro che ci sono vicini e viene rappresentata tout court nella sua visceralità sanguinosamente ripugnante distruggendo, di conseguenza, la compostezza espressiva del cinema classico che – tranne in qualche clamoroso e sporadico caso – aveva autocensurato anche sullo schermo l’esibizione dei tabù irrappresentabili. Ne “La notte dei morti viventi” non viene concesso nulla allo spettatore, manca la ricomposizione finale della violazione terrorizzante: l’orrore rimane in circolo e l’individuo o la società non possono più contrapporsi ad esso in maniera efficace. Sapreste trovare qualcosa di più mostruoso? (Nicola Pice)
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