Se lo ascolti ora, quarant’anni dopo, probabilmente puoi pure farlo mentre apparecchi e prepari il tuo sushi che sa di piscio giapponese.Ma all’epoca della sua uscita Here Come the Warm Jets è un disco che non può non lasciarti stordito. Tutto è gigante, qui dentro. Tutto è folle e gigante. Tutto è abbagliante, folle e gigante. Tutto è fottutamente perverso, abbagliante, folle e gigante. Brian Eno esce dall’ombra dei Roxy Music e accende il suo faretto viola. Preme su una cazzo di macchina a pedale e te lo spinge in gola, come una sonda gastrica al neon. Here Come the Warm Jets è il disco dall’estetismo acceso e sfrontato. Più ancora di quello che i Roxy Music avevano osato, più di quanto Bowie oserà dopo esserselo portato a letto. Eno è l’ uomo-macchina del glam. Uno specchio deformato da cui si riversano immagini atroci come quelle di Baby‘s on fire (con la chitarra di Robert Fripp che si contorce come un serpente cui è stata schiacciata la testa), Driving me backwards, Blank Frank (la versione androide di Bo Diddley, NdLYS) o Needles in the Camel‘s Eye, voci dionisiache come quelle di On some faraway beach o Some of them are old e infernali come i cori di Dead finks don‘t talk dove sono racchiusi tutti i Bauhaus che verranno. Here come the warm jets spande veleno, metallo e lustrini sul doppio bianco dei Beatles portando a conseguenze estreme la schizofrenia di quell’altare pop. C’è una sorta di perfidia latente che serpeggia lungo questo disco, una sorta di lascivia perniciosa e sintetica che si gonfia come un impalpabile e ferale vapore colorato fino a rilasciare una infinita pioggia di fibre ottiche che penetrano nella pelle come lame, un erotismo asessuato e marziano che va inalato con le narici, come piccole strisce di cocaina. La nascita del genio pop. (Franco Dimauro)
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