La storia del jazz ci insegna che sui territori del vocalismo d’alto intrattenimento l’aspetto fisico non ha mai contato eccessivamente; al giorno d’oggi invece aiuta eccome. Diana Krall, 47 anni, madre di due gemelli di 5 anni, compagna di Elvis Costello, compare sulla copertina del suo nuovo disco anzitutto splendida nell’aspetto fisico. Che poi sia brava come interprete è cosa risaputa ma certo il modo di ammiccare alla moltitudine degli ascoltatori, seducente e in abiti (semi)succinti – languida come una ragazza delle Zigfeld Follies degli anni venti – raggiunge un secondo importante risultato: ovvero quello d’aiutare (e non poco) l’affermazione globalizzata di un genere sofisticato e (un tempo) ‘esclusivo’ qual è quello di cui lei e Michael Bublé sono oggi le punte più avanzate. La purezza dei grandi d’un passato (oscuro e negletto ai più) è bella che andata, la magnificenza ‘maudit’ di gente come Chet Baker e Billie Holiday, appartiene alla nostalgia d’antica e sempiterna memoria, oggi si fanno largo artisti che anzitutto devono ‘piacere’ alle platee. Il nuovo disco, l’undicesimo in studio, ha tutto per apparire vintage (conduce ad un raffinatissimo recupero delle radici jazzistiche di inizio Novecento) ed allo stesso tempo ammaliare le platee con immagini che ritraggono la bella interprete in pose seducenti. Diana recupera brani degli anni ’20 e ’30 sui quali si è formata: 13 in tutto, più 4 per la Deluxe Edition’ messa (essa pure) in commercio. Si tratta di pezzi che lei ha imparato ad amare dalla collezione di 78 giri del padre, appassionato cultore. Non necessariamente brani celebrati, più volte invece pezzi oscuri che si muovono tra lo swing, il vaudeville e il rag (“We Just Couldn’t Say Goodbye”, “There Ain’t No Sweet Man That’s Worth The Salt Of My Tears”, “Here Lies Love”, “I Used To Love You But It’s All Over Now”), in una nuova veste più aderente ai tempi che corrono. Ed il risultato musicale è più raffinata che mai, mostra la sola “debolezza”, se la si può definire tale, di voler arrivare ad una fetta ancor più ampia di consumatori (almeno nella prima parte) nonostante – e qui sta il merito – l’adozione di classici (come detto) sconosciuti ai più, a recuperare sonorità malinconiche e dimenticate. Tra queste anche certo gipsy jazz che nei primi decenni del XX° secolo vide primeggiare il grande chitarrista Django Reinhardt. In cabina di regia produttiva c’è la garanzia offerta dal lavoro di T-Bone Burnett. Un mood meno jazzato spesso più incline alla ballata (“Prairie Lullaby”, la title-track, “Wide River To Cross”, la magnifica “Let It Rain”); splendido è poi l’arrangiamento di “Lonely Avenue” (di Doc Pomus) già entara a far parte del repertorio di Ray Charles e Van Morrison. La Krall, dallo stile vocale forte e duttile, ha assoluta padronanza della voce, capace comunque di dare accelerazioni alle linee armoniche, e dona pure tocchi di sensualità alle sue performance vocali; e non meno efficace (si ascolti “I’m A Little Mixed Up”) è il suo pianismo ‘blue’ accanto al lavoro puntuale di alcuni straordinari session-man (primeggia Marc Ribot alle chitarre e al banjo) che, oltre allo stesso T-Bone Burnett, contemplano Howard Coward (ukulele, chitarra, mandola, background vocal), Jay Bellerose (batteria), Dennis Crouch (basso), Bryan Sutton (chitarre), Colin Linden (chitarre, dobro) Keefus Green (tastiere, mellotron). Un disco magnifico che riesce ad arrivare anche a un pubblico ‘distante’ da certo jazz. (Luigi Lozzi)
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