“Eraserhead”, l’esordio cinematografico di David Lynch avvenuto dopo la realizzazione di ben quattro cortometraggi a loro modo originalissimi, aveva sconvolto – ma anche affascinato – il pubblico dei midnight-movies (“film di mezzanotte” proiettati nei circuiti alternativi). Finanziata dall’American film Institute e da alcuni generosi privati (Sissy Spacek in primis), portata a termine dopo quattro anni di travagliatissima lavorazione, l’opera prima – il primo lungometraggio – del regista americano aveva rappresentato in un certo senso il punto di convergenza del background artistico di Lynch in quanto pittore-studente di cinema: una sorta di (con)fusione dell’arte astratta, delle esperienze dell’avanguardia storica, dei dipinti di Francis Bacon. Il risultato ottenuto – una successione di scene deliranti e di immagini disgustose, animate a passo uno e sonorizzate sinteticamente – non era soltanto (verrebbe da dire “semplicisticamente”) la concreta traduzione audiovisiva degli incubi e, dunque, delle paure del suo autore ma più profondamente il manifesto della poetica di Lynch, il punto di non ritorno nella costruzione, comunque complessissima, di un immaginario in cui ci fosse una mescolanza continua tra la realtà percepibile del mondo esterno e l’onirismo interiore non compiutamente decodificabile nel proprio apparato simbolico. Operazione, quella del regista, che vedrà i suoi risultati probabilmente migliori nella fase finale della sua produzione in cui l’intersezione dei due piani fenomenici è veicolata in maniera straordinaria ai meccanismi filmici. In opere come “Lost Highway”, “Mulholland Drive” e, ancor più, “Inland Empire”, infatti, il distacco dalla linearità del racconto classico sarà (quasi) totale con le trame che procederanno per destrutturazioni, loop e torsioni narrative metamorfiche fino ad assumere connotati immaginari e paradossi prospettici. “Eraserhead” acquista d’emblèe lo status di “cult” malsano ma la carriera del suo autore altrettanto inspiegabilmente sembra arrestarsi fino al momento in cui – e in maniera abbastanza fortuita – gli viene offerta da Mel Brooks la direzione di un film sulla vita di John Merrick (chiamato l’uomo elefante a causa di una malattia – la neurofibromatosi – che gli deformava il volto) la cui sceneggiatura, basata sui romanzi “Memorie” di Frederick Treves e “Study in human dignity” di Ashley Montagu, Lynch riscrivere “motu proprio”. Come già avvenuto in “Eraserhead”, anche in “The Elephant man” Lynch affronta la teratologia con una scelta estetica ed etica, però, intrisa di un pudore e di una pietà del tutto assenti nell’opera prima. Il film è immerso nel bianco e nero di una fotografia a bassa intensità luminosa che ricostruisce alla perfezione (ed esalta) il clima cupo della Londra vittoriana della seconda metà dell’800 in cui sono ambientate le vicende di Merrick e del dottor Treves che cercherà di “umanizzare” l’atroce condizione a cui l’ammalato è condannato ma ciò che impreziosisce l’opera è la stupefacente capacità del regista americano di muovere la macchina da presa mettendola al servizio dell’impianto narrativo e di dosare sapientemente l’utilizzo dei più comuni artifici cinematografici. Differentemente da “Eraserhead” in cui, infatti, il montaggio delle sequenze aveva la funzione di accelleratore dell’ansia, di “missaggio” frenetico per accentuarne l’aspetto allucinatorio, in questo film il regista preferisce esaltare l’intensità dolorosa delle vicende dando il giusto risalto (elemento ricorrente in Lynch) ai dettagli e ai particolari che concorrono alla messa in scena con un gusto che rimanda volutamente all’esperienza del cinema espressionista tedesco. Assolutamente geniale appare, inoltre, il ricorso alla soggettiva che, sorretta da virtuosistici movimenti in avanti (travelling), si impadronisce sempre di più dello spazio filmico, assolvendo al compito non solo di sviluppare la tensione ma soprattutto di esasperare il processo di identificazione con il personaggio. Con questo procedimento, infatti, noi-spettatori vediamo “soltanto” quello che vede Merrick ogni volta che viene esposto alla morbosità del pubblico (nella prima del film non viene mai mostrato il suo volto) e così verifichiamo quanto siano volgari e crudeli gli uomini “normali”. Soltanto nella parte finale quando ormai abbiamo preso atto – con un processo di introiezione – della viltà abietta del nostro voyerismo, ci viene svelato l’oggetto che la provoca. Una rivelazione penosa che, nel rovesciamento prospettico, è anche uno spietato atto d’accusa che l’autore riversa sullo spettatore: nessuno sguardo è mai veramente innocente ma, in quanto atto, esso costituisce un momento di scelta consapevole e, dunque, colpevolmente responsabile nei confronti del suo destinatario. Più di tutto, però, “The Elephant man” è la rappresentazione spietata dell’ossessione di David Lynch per la mostruosità che è il tratto caratteristico della prima parte della sua produzione e che, nelle forme apparentemente lineari del cinema classico hollywoodiano in cui sembra muoversi, si concreta nella inesorabile registrazione di un itinerario di dolore, di una sorta di calvario “freak” che ci aggredisce e ci invade senza possibilità di scampo. La mostruosità per Lynch, infatti, non è solo l’evocazione dei fantasmi dell’inconscio di “Eraserhead” ma una diversità che dal volto/corpo deforme s’espande nella sfera psichica per diventare vera e propria condizione esistenziale, per rappresentare una fragilità emotiva che assume i contorni di una “impossibilità al vivere”. Merrick, dunque, si lascia morire proprio quando sembrerebbe concluso il suo percorso di sofferenze, quando sembrerebbe che le persone normali lo abbiano “incluso”: sa, in verità, che non potrà mai essere come gli altri condannato da un corpo che mostruosamente lo “esclude” e si addormenta nella consapevolezza che il peso della testa lo soffocherà, in questo caso felice di porre fine in maniera radicale alle sue sofferenze. La morte è l’unica scelta per Merrick e Lynch non ha timore di dir(ce)lo. (Nicola Pice)
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