C’è un desiderio pronunciato da parte di tanti artisti, che oggi orbitano intorno al jazz vocale meno convenzionale e di più facile assimilazione, di arrivare ad un pubblico più ampio. Ha aperto la strada (potremmo dire) Michael Bublè con il suo swing di largo consumo, seguito poi da Jamie Cullum e la stessa Diana Krall di recente, con il suo ultimo album “Glad Rag Doll”, pur mantenendo ‘alti’ i contenuti del suo lavoro, ha strizzato l’occhio alle platee meno avvezze ai rigori espressivi del jazz. Peter Cincotti è solo l’ultimo ad allinearsi ad una tendenza che non vuole ‘imbastardire’ il jazz vocale ma semplicemente renderlo più appetibile al grosso pubblico. Però va detto subito, a scanso di equivoci, che Peter conduce in porto un’operazione ancora più semplificativa e radicale votandosi completamente (anima e corpo) al pop con il suo disco più recente. Molti ricorderanno Cincotti in un piccolo ruolo da direttore d’una orchestra swing nel nostalgico “Beyond the Sea” (del 2004), sulla vita sfortunata e travagliata diBobby Darin (aveva anche contribuito, Cincotti, alla realizzazione della colonna sonora dello stesso film) e ancora, in veste di pianista l’avevamo visto con un piccolo cameo in “Spider-Man 2”. Beh, dimenticate tutto e resettate l’idea che vi eravate fatti dell’artista. Una decina d’anni fa, al suo esordio discografico, ancora giovanissimo (appena ventenne) molti avevano visto in lui una possibile nuova stella del moderno jazz (raggiungeva il primo posto della ‘Billboard Traditional Jazz Chart’: il più giovane artista solista a riuscirci); un credito che via via era andato scemando in questo senso per le scelte fatte negli anni successivi in cui l’artista newyorkese sviluppava una connivenza perniciosa e sospetta con il Pop (comprovata dai riscontri di vendite), sugellata da quest’ultimo album, “Metropolis”. Di chiara origine italiana – il nonno paterno era di Napoli, la nonna di Piacenza, da due generazioni la famiglia (cui è legatissimo) risiede nelle Grande Mela -, ama e conosce l’Italia (dove viene spesso), è stato un bambino prodigio per aver imparato a suonare il pianoforte fin dall’età di 4 anni con una naturale predisposizione verso il jazz e per aver, ancora precoce iniziato a comporre brani; a soli 15 anni ha iniziato ad esibirsi nei club di New York. Avevano scritto di lui già prima di incidere i primi pezzi: «I giovani idoli dello swing comincino a tremare; sta arrivando Peter Cincotti». Quindi un importante biglietto da visita l’aver affiancato Harry Connick Jr sul palco ad Atlantic City, quindi l’esordio discografico del giovane crooner a vent’anni con l’album omonimo, seguito nel 2004 da “On the Moon” – in cui rilegge classici come “St.Louis Blues” di William Christopher Handy, “I Love Paris” di Cole Porter o “Up On The Roof” di Carole King e Gerry Goffin abbellendoli con arrangiamenti di sassofoni e verve pop – e nel 2007 da “East of Angel Town”, primo album di materiale tutto originale, e già i primi decisi passi del cambiamento – accanto al jazz venature soul e pop – e con questi il piacere di scalare le classifiche di mezzo mondo. Il quarto album del cantante, pianista e compositore (autore di tutti i brani), segna una decisa virata verso il pop che Cincotti spiega come una naturale evoluzione del suo percorso musicale: «Non amo le definizioni, non ho mai pensato alla musica come a una moda e non voglio dividerla in generi. Per questo amo Jerry Lee Lewis, Miles Davis e Joni Mitchell. La mia musica è un grande ombrello sotto cui riparo le cose che voglio preservare dai bombardamenti esterni». Il disco è stato prodotto da John Fields (Jonas Brothers, Miley Cyrus, Switchfoot). Vi si alternano momenti di acceso power pop condito da ritmiche funky (“Graffiti Wall”, “World Gone Crazy”, “Nothing’s Enough” che è la cosa migliore del disco), con in testa il singolo “My Religion”, ad altri più intimi e romantici (“Take A Look Good”, con una bella intro di pianoforte, “Before I Go”, “Do or Die”, “Fit You Better”). Pezzi che non sono noiosi, sono semplicemente un’altra cosa rispetto alle premesse che avevano accompagnato il giovane talento ai suoi esordi; appare chiaro che Peter punta verso un altro pubblico, più giovane, più malleabile e meno smaliziato, strizza l’occhio alle stazioni radiofoniche più commerciali e non disdegna il fascino di ritrovarsi nelle Charts radiofoniche. In qualche frangente si avverte il fatto che Cincotti non tradisce del tutto la sua originaria propensione per il jazz, il suo background, ma i fatti sono sotto gli occhi di tutti. Se prima i suoi punti di riferimento (diciamo) potevano essere Frank Sinatra e Nat King Cole ora potrebbero essere Stevie Wonder e Billy Joel (nel migliore dei casi) o, addirittura, i Maroon 5 (in “My Religion”) e Robbie Williams. Comunque ogni brano, sebbene condito di ritmi che rimbalzano, è arricchito da momenti strumentali eleganti, mai di bassa lega. Non bisogna storcere il naso, ma solo accettare il fatto che oggi la musica di Peter Cincotti è un’altra cosa; non possiamo biasimare l’artista, possiamo solo mettere in guardia un certo tipo di ascoltatore e/o consigliare questo disco ad un altro tipo di platea. Da moderno crooner che ha bruciato le tappe eccolo trasformato in un ‘virtuale’ star del pop intrigato con una electro-dance intelligente sì ma di largo consumo, con temi orecchiabili seppur non semplicistici. «Spero che la gente prema il tasto ‘pausa’ sulla follia della propria vita quotidiana e apprezzi pienamente l’intero album. È una richiesta non da poco ai nostri giorni, ma questo album è incentrato tutto sulla creazione di un altro mondo, il mondo quasi mitico di Metropolis, e io voglio che la gente senta di aver effettivamente esplorato quest’altro mondo», ha spiegato Cincotti. (Luigi Lozzi)
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