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(Ri)visti in TV: Paranoid Park di Gus Van Sant (2007)

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Se il cinema europeo degli ultimi trent’anni, a partire dagli anni ‘80 dunque, non ha espresso più grandi movimenti (tranne il discusso Dogma di Lars Von Trier) ma l’originalità dei singoli autori, quello americano, al contrario, presenta un panorama piuttosto variegato. Negli Stati Uniti, infatti, accanto ad un cinema che richiama, ancora, un modello classico di rappresentazione visiva, troviamo sperimentazioni moderne o postmoderne che consistono spesso nel ricontestualizzare elementi del passato in una nuova cornice e la continuazione di un cinema d’autore (spesso indipendente) che segue le proprie regole e che si caratterizza per uno spiccato individualismo tematico-narrativo. Questi modelli, tuttavia, tendono – sempre più frequentemente – a mescolarsi e ad elidersi l’uno con l’altro rendendo le varie categorie molto labili. L’esempio più rappresentativo di questo fenomeno è dato dalla filmografia di Gus Van Sant, caratterizzata da un continuo cambiamento, ciclicamente capace di farsi carico delle necessità commerciali del mainstream hollywoodiano (decontestualizzando, però, gli stilemi del genere) ma anche impegnato in una sperimentazione mai fine a se stessa che sia, al contrario, pungolo dell’immaginario visivo dello spettatore. Infatti, la prima parte dell’opera di questo autore (fino a “Cowgirl – Il nuovo sesso” per intenderci, passando per “Drugstore Cowboy” e “Belli e Dannati”) è pura riscrittura “hippy and gay” dei road-movies tradizionali e del western, il genere a stelle e strisce per antonomasia, in cui Van Sant ibrida il realismo delle storie di tossicodipendenti e ragazzi di vita – già tinteggiato da tocchi impressionisti – con sovraimpressioni e time lapse che rivestono una funzione sia poetica che psicologica. L’approdo hollywoodiano, avvenuto a metà degli anni ‘90 con “Da morire” e proseguito con “Will Hunting – Genio ribelle” e “Scoprendo Forrest” – coincide con la scelta, dagli altalenanti esiti estetici, di dirigire film la cui sceneggiatura è stata scritta da altri autori cimentandosi con generi differenti (il noir, il melodramma, la commedia, persino il thriller nel remake dello “Psycho” hitchcockiano) senza rinunciare, però, all’analisi di un mondo giovanile, rappresentato non più nella fase del “cupio dissolvi” proprio delle opere degli esordi, vittima, comunque, di quello degli adulti e, dunque, alle prese con le prevedibili difficoltà di crescita psicologica. “Gerry” e il successivo “Elephant” inaugurano una nuova fase stilistica (la trilogia della morte) culminata in “Last days”: film laconici, contrassegnati dal ricorso a lunghi piani sequenza e minuziosi movimenti di macchina che seguono o girano intorno ai personaggi. Van Sant si ricongiunge, quindi, al cinema d’autore puro abbracciando l’idea d’una sperimentazione – mai più così radicale – sulle immagini che rimanda soprattutto al cinema di Bèla Tarr e Chantal Akermann ma anche alle provocazioni di Michael Snow e alle riflessioni filosofiche di Kiarostami. Nelle ultime tre opere l’autore americano, invece, sembra affrontare nuovamente i temi narrativi degli esordi in una maniera ancora una volta, però, differente: in difficilissimo equilibrio fra il desiderio di arricchire (o modificare) il proprio linguaggio filmico e, al contempo, la necessità (che sembra fortissima per Van Sant in questa fase della sua carriera) di “parlare” ad una platea sempre più vasta. Senza dubbio “Milk”, biopic gay sull’omonimo politico, ha segnato per il regista l’inizio del recupero d’una sintassi filmica “elementare” (o quanto meno classica) con la rinuncia a qualsiasi elemento autoriale in favore d’una semplicità dello stile che privilegi i temi – in questo caso di grande impatto sociale e civile – alla forma. L’ultima opera – “Restless” – sembra essere l’approdo (definitivo? Difficile fare previsioni con Van Sant) di questo processo: un film che parla di morte sullo sfondo d’una struggente storia d’amore adolescenziale senza alcun timore di tangere il melodramma ed i clichè più comuni del mondo giovanile dandosi una veste decisamente pop. Invece, è “Paranoid park”, uscito due anni dopo “Last days”, in onda sabato alle ore 1,00 su rai movie, con ogni probabilità il frutto migliore della cinematografia di questo autore, atteso che il film riesce a far tesoro delle sperimentazioni contenute nella trilogia e, allo stesso tempo, le arricchisce con il flusso narrativo del libro di Blake Nelson a cui l’opera s’ispira. Le vicende di Alex – giovane skater di Portland – l’incidente della morte del guardiano ferroviario in cui è coinvolto e il travaglio interiore che gli cambierà la vita (elementi che nel romanzo sono esposti in maniera cronologicamente lineare sotto forma di un diario in cui ogni capitolo riporta una data e un luogo precisi) sono rappresentate da Van Sant, invece, in maniera più disordinatamente ellittica con evidenti salti in avanti a cui corrispondono altrettante torsioni temporali all’indietro giacché nelle prima parte dell’opera il ragazzo tenta di mettere per iscritto le proprie responsabilità, seppur limitate, raccontando lo svolgimento del tragico evento, e nella parte successiva i fatti – in realtà verificatisi in precedenza – ci vengono mostrati tal quali senza lasciar intravedere, peraltro, nessuna possibilità di soluzione nell’ambiguo finale in cui Alex brucia i fogli della sua confessione scritta. “Paranoid park” ci appare un’opera di grande fascino visivo in cui il regista riesce con grande naturalezza a mescolare le ossessioni stilistiche “ricorrenti” del suo cinema ri-pensandole all’interno di un contesto in cui – oseremmo dire per la prima volta – esse non siano preminenti rispetto agli altri elementi filmici ma risultino amalgamate in maniera coerente. Anche in questo caso, dunque, come avvenuto in precedenti opere, è molto frequente il ricorso al piano sequenza con il quale vengono seguiti il protagonista e gli altri ragazzi praticamente ovunque – nei corridoi della scuola, nello spazio labirintico delle piste da skateboard, per la strada, sul mare – ma con differenti modalità e risultati diversi. Nella trilogia della morte, infatti, lo sfibrante ricorso al long-take nasceva non dalla necessità di seguire la concatenazione dei pensieri e delle azioni dei personaggi quanto dal desiderio di osservazione delle loro figure in “incessante” movimento – accompagnate dalla MDP in ogni spostamento e riprese per lo più di spalle – che assumeva, pertanto, una funzione asettica di registrazione distaccata in cui emergesse, per stridente contrasto, l’insensatezza degli eventi rappresentanti e, conseguentemente, della condizione umana. In “Paranoid Park”, al contrario, Van Sant ricolloca il personaggio al centro della (messa in) scena, lo fornisce di una dimensione psicologica (del tutto assente, invece, nella trilogia) ne accoglie il suo punto di vista, adottando una sorta di estetica del ritratto con l’uso frequente di primi piani “pittorici” da cui progressivamente affiori, quindi, la soggettività del protagonista e, inoltre, mediante l’attenta collocazione delle loro figure nello spazio che abitano ed in cui si muovono osmoticamente: non più, dunque, elemento alieno ed ostile o, nel migliore dei casi, indifferente ed accessorio come già nelle opere della trilogia. Un metodo formale “hitchcockiano”, dunque, che assume le caratteristiche di spudorata citazione nella scena in cui Alex entra nel salotto e si abbassa per paura d’essere spiato dalla finestra (“La finestra sul cortile”) e s’infila nella doccia (“Psycho”), in realtà sincero omaggio per l’autore alla Hollywood migliore in un film che per il regista è anche memoria del cinema che lo ha influenzato e che lui stesso ha prodotto (molteplici sono i rimandi alle opere precedenti). Van Sant, a ben vedere, si spinge anche oltre in questa operazione di adesione empatica al protagonista ricorrendo al ralenti (soprattutto nelle scene di skateboarding) ed utilizzando in maniera extradiegetica la musica (particolarmente variegata risulta la colonna sonora che spazia dal folk di Billy Swan a Nino Rota, dall’indie-rock di Elliot Smith alla musica elettronica, dall’hard-core a Beethoven) al fine di rappresentare per immagini lo scomposto flusso emotivo, tipicamente adolescenziale, di Alex. Dunque, rispetto alla trilogia il cambio di prospettiva filmico, la torsione stilistica sembra perfettamente compiuta: l’autore ha piegato la materia sonora, visiva e narrativa alle peregrinazioni mentali del protagonista in un saliscendi frammentato che è perfettamente funzionale alla complessità di una vicenda che noi spettatori abbiamo il faticoso (e pressocchè impossibile) compito di ri-comporre. In un certo senso Van Sant sembra abbia voluto costruire con “Paranoid Park” un anomalo musical psichedelico (e a mio avviso quest’opera è assimilabile in toto ad una raffinatissima installazione audio-visiva) che fosse “il racconto crudele della giovinezza” (parafrasando Oshima), che illustrasse con efficacia il disagio esistenziale di una stagione particolarmente delicata della vita e che spiegasse con implacabile malinconia come tutti i cambiamenti psichici che coinvolgano gli adolescenti, lungi dall’essere momenti di crescita, equivalgano, in realtà, alla fine della gioventù stessa e, dunque, un po’ alla morte della parte migliore dell’uomo. (Nicola Pice)

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