Nel 1994 quando qualche amico scherzando come di consueto sul mio difetto cromatico che mi impedisce di riconoscere alcune tonalità di colori mi chiedeva di che colore fossi vestito, rispondevo “color Portishead”. E lui ammutoliva. In realtà la mia risposta non era distante dal vero. Tradotta in termini comuni voleva dire “color tristezza, sfumatura Bristoliana”. La rarefazione triste e digitale di Dummy era un piccolo miracolo di equilibrio ed eleganza tra l’ elettronica microscopica e sinistra dei Massive Attack e l’ umorale e femminile sensibilità degli Everything but the Girl. Evanescente e sinistra, di un’ eleganza raffinata ed inquietante, la musica dei Portishead faceva penetrare le lacrime del blues attraverso le crepe della musica elettronica dipingendo di tristezza le luci stroboscopiche dei dancefloor, rallentando il suo ritmo fino a renderlo atrofico. Una pista da ballo dove a nessuno è concesso di ballare. Un’ orchestra zombi che suona in un teatro deserto, con la sola voce di Beth Gibbons a coprire lo spazio infinito tra le quinte del palco e l’ultima fila della tribuna. Violini che hanno la solenne disperazione delle ali dei corvi. Cocci di elettronica che si frantumano in piccole schegge di vetro. Trombe jazz che alitano come ectoplasmi tra i saloni di una villa infestata. Corpi senza ombre. Lenzuola di fantasmi imbrattate di trucco, incapaci di volare. Dummy pesa come un corpo esanime sulla superficie di un lago di acqua melmosa. Chi ha paura di una vita senza sorrisi, stia al riparo. Qui dentro piove come sulle colline di Twin Peaks. Piove color Portishead. Color tristezza, sfumatura Bristoliana. (Franco Dimauro)
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